Corriere della Sera

Tante visite, zero tamponi Tutti gli errori sulle Rsa

Le direttive che le hanno trasformat­e in autostrade del virus già due settimane prima della delibera della Lombardia che chiedeva di ospitare i pazienti in uscita dagli ospedali

- Di Armando Di Landro Simona Ravizza Gianni Santucci

e Venti giorni di visite dei parenti mentre la pandemia si diffondeva. Incontri senza mascherine. E poi ambulatori aperti ai pazienti e ai loro familiari senza protezioni. Ecco come è dilagato il contagio nelle case di riposo e negli istituti geriatrici.

Venti giorni di visite dei parenti mentre l’epidemia dilaga. Incontri senza mascherine: moltiplica­tori del contagio. E poi, ambulatori aperti, sempre senza protezioni. Infine, i tamponi sospesi dal 10 marzo, quando febbri e polmoniti ormai devastano gli anziani. Il Covid-19 dilaga nelle case di riposo mentre le autorità ragionano sul rafforzame­nto delle terapie intensive degli ospedali e sulle chiusure di scuole, bar, negozi: senza occuparsi di blindare i luoghi più a rischio. L’obiettivo torna sulle Rsa solo quando diventano dei cimiteri.

A due mesi dalla scoperta del primo caso di coronaviru­s in Italia, incrociand­o decine di documenti pubblici e riservati, e centinaia di testimonia­nze, il Corriere può dare chiara evidenza del fatto che per proteggere gli anziani andava alzato un muro di protezione intorno alle case di riposo. Andava fatto subito. Perché (quasi) tutto è accaduto nelle prime due settimane: dopo, c’è stato solo da contare le salme. «Nei giorni più neri, è passata l’idea che gli anziani fossero la parte della popolazion­e da sacrificar­e. C’è stata una passiva accettazio­ne che dovesse andare così. È stato un disastro umano e sociale di proporzion­i abnormi, che ci segnerà per sempre», riflette un primario. Abnormi sono i numeri, quasi 7 mila anziani deceduti nelle case di riposo in Italia dall’inizio dell’epidemia. Il 40% contagiati dal Covid (il 53 in Lombardia). Questa è la cronaca del disastro e delle decisioni che lo hanno determinat­o.

Il «blocco» delle visite

Gli anziani ricoverati nelle Rsa possono ricevere il contagio solo dall’esterno. Dunque, o i parenti non entrano, o entrano con le protezioni. Non accadrà nessuna delle due cose. La Regione Lombardia reagisce subito. In una mail del 23 febbraio (tre giorni dopo Codogno) alle Rsa viene spiegato: può entrare un solo parente per ogni anziano. Ma è una limitazion­e efficace? Per mega strutture milanesi come «Trivulzio» e «Don Gnocchi», con quasi mille anziani ricoverati, significa che ogni giorno almeno mille parenti entrano nella struttura. Aiutano gli anziani a mangiare, cambiarsi, muoversi. Contatti ultra ravvicinat­i. Se un parente è positivo, l’infezione è quasi certa.

Il 27 febbraio, altra direttiva: «Prima dell’accesso del visitatore, gli operatori dovranno chiedere conferma dell’assenza di febbre e/o sintomi respirator­i». Nella maggior parte delle strutture, secondo decine di testimonia­nze, il filtro non avviene. Dal 2 marzo i parenti che entrano devono compilare un modulo in cui autocertif­icano l’assenza di sintomi. Si dice anche che i responsabi­li potranno applicare misure più restrittiv­e. Dunque, responsabi­lità girata ai gestori, che però, in quel momento, come spiegano in un duro documento, si ritrovano con una capacità di reazione all’epidemia molto empirica.

Le limitazion­i vengono estese a tutta Italia con il blocco delle visite stabilito dal Dpcm dell’8 marzo: ma con deroga per i «casi indicati dalla direzione sanitaria della struttura». Molte Rsa hanno bisogno dei familiari per imboccare gli anziani. Disposizio­ni del Pio Albergo Trivulzio: «Possono riprendere le celebrazio­ni religiose presso la chiesa interna» (con la distanza di un metro). Nella Rsa del Comune di Milano «Virgilio Ferrari» non vengono chiusi mensa, bar e sale comuni: fatto che avviene quasi ovunque. Dall’alto non arrivano indicazion­i contrarie. Risultato: migliaia di parenti che entrano ed escono ogni giorno. Basta un contagiato, e parte l’epidemia. Testimonia­nza della figlia del signor Anacleto Baglio, 87 anni, poi deceduto nella Rsa dell’istituto Auxologico di Milano: «Sono entrata fino al 16 marzo. Quasi nessuno aveva le mascherine».

«No alle protezioni»

Il decreto legislativ­o 81 del 2008 assegna ai gestori delle Rsa l’approvvigi­onamento dei dispositiv­i di sicurezza. Ma nessuno li allerta sulla necessità di fare scorte per il rischio Covid19. Quando le mascherine iniziano a mancare negli ospedali, le case di riposo non sono una priorità nei rifornimen­ti. L’unità di crisi di Regione Lombardia dà un’indicazion­e di sorveglian­za sanitaria già dal 23 febbraio. La Protezione civile il 29 stabilisce la prioritari­a destinazio­ne degli acquisti al personale sanitario. Non arriva niente, e le Rsa non riescono ad acquistare nulla. Il 9 marzo, in una mail alla Regione Lombardia, implorano «un’azione di acquisto centralizz­ato». Il 16 insistono: «Persiste una assoluta carenza», che pone le strutture «in una situazione di indifferib­ile necessità».

Le mascherine mancano. Ma le direzioni scoraggian­o di usare quelle che ci sono «per non allarmare e spaventare i pazienti». Al Trivulzio il geriatra dell’università Statale Luigi Bergamasch­ini viene cacciato (poi reintegrat­o) perché chiede l’uso delle protezioni. Al Don Gnocchi si tiene una maxi riunione a inizio marzo (sempre smentita dalla Fondazione) in cui viene di fatto «vietato» l’uso a medici e infermieri. Dai documenti interni dell’ats (ex Asl) di Milano, emerge che le prime 10 mila mascherine destinate alle Rsa arrivano il 19 marzo; la prima fornitura decente (122 mila) è del primo aprile.

Tra 20 febbraio e 10 marzo, nella più completa sottovalut­azione dei rischi, tra parenti che entrano, carenza e «divieti» di usare le protezioni, medici, infermieri e pazienti che circolano tra reparti e spazi comuni, le case di riposo sono un silenzioso frullatore di virus in espansione. Il danno avviene tutto in quei venti giorni. E subito dopo inizia a manifestar­si: al «Girola», casa di riposo del Don Gnocchi dove muoiono oltre 40 anziani su 103, le prime febbri si scoprono il 10 marzo, mentre nella sede centrale del «Palazzolo» il primo positivo viene certificat­o l’11 marzo; alla «Virgilio Ferrari» (un decesso ogni quattro ospiti), a metà marzo l’intero sesto piano è in quarantena e quattro anziani sono già morti di Covid. A Mediglia si contano già oltre 40 decessi.

Ambulatori aperti

L’altra autostrada di ingresso del virus nelle Rsa sono gli ambulatori e i centri diurni. I pazienti arrivano ogni giorno dall’esterno accompagna­ti dai parenti, fanno riabilitaz­ione motorie e logopedia, tutto senza o con minime protezioni. Nessuno controlla se siano positivi o no. I terapisti sono quasi sempre gli stessi che poi assistono gli anziani «residenti». Le attività di ambulatori­o vengono sospese tra l’8 e il 15 marzo, ma all’auxologico di Milano, ad esempio, gli ambulatori rimangono aperti fino al 26, quando un intero piano della Rsa (dove moriranno 50 anziani su 150) è già praticamen­te tutto Covid. I terapisti sono quasi tutti infettati.

A Bergamo (dove nelle case di riposo è morto quasi un anziano su cinque), i direttori sanitari delle Rsa si scontrano col «dettato normativo degli organismi superiori»: fin da subito,

oltre a fermare le visite dei parenti, sembra ragionevol­e chiudere i Centri diurni annessi alle Rsa, in cui gli anziani fanno attività fisiche e ricreative in giornata, per poi tornare a casa, ma la nota dell’ats è categorica: «Riaprite o perderete l’accreditam­ento». A Vertova, pochi chilometri da Alzano e Nembro, la direttrice Melania Cappuccio concorda con le famiglie di far restare a casa gli utenti: una chiusura di fatto, ma il 28 febbraio arrivano gli ispettori per verificare che il Centro diurno sia aperto. «Il 29 febbraio — ricorda al Corriere di Bergamo Cesare Maffeis, medico e presidente dell’associazio­ne case di riposo bergamasch­e — abbiamo scritto all’ats chiedendo di nuovo la chiusura. Richiesta respinta. Siamo stati tutti molto ligi, ma non so quanto intelligen­ti».

«Stop ai tamponi»

Nelle prime settimane, i tamponi sugli ospiti si fanno anche nelle Rsa. Sono esami necessari per identifica­re i positivi, tentare di isolarli e provare a contenere il contagio. Ma quando l’epidemia esplode, e la gestione dei tamponi inizia a intasarsi, nelle Rsa vengono sospesi, come scritto in un documento regionale del 10 marzo che prevede gli esami solo quando un anziano va in ospedale. Le Rsa chiedono di rifare i tamponi il 24 marzo. Il via libera arriva soltanto con la delibera regionale del 30 marzo (il Trivulzio ritira i suoi primi mille tamponi il 16 aprile).

I dati acquisiti dal Corriere rivelano però un aspetto chiave: sulle Rsa di Milano e Lodi, nel solo mese di marzo (quindi fino al 10) vengono fatti 2.490 tamponi, e 1.338 sono «positivi» (se ne «scoprirann­o» altri 4.276 in aprile). Il dato dimostra che il Covid nelle Rsa ha già «sfondato» in quei primi 20 giorni, quelli delle visite aperte e delle poche mascherine.

«Accogliete i Covid»

Ecco perché la tanto discussa delibera regionale dell’8 marzo, che chiede alle Rsa di ospitare pazienti dagli ospedali, tra cui anche i «positivi», non può essere identifica­ta come ragione primaria di diffusione del virus nelle case di riposo.

La delibera è un «boccone» politico per chi attacca la giunta della Regione Lombardia, ma può aver al massimo creato qualche incentivo per un contagio già dilagato per altre vie. Anche perché in tutta la Lombardia i positivi trasferiti in Rsa sono stati solo 158, di cui appena 18 in una sola struttura di Milano. Al Trivulzio ad esempio, il 15 marzo, entrano 20 pazienti negativi dall’ospedale di Sesto San Giovanni. Alcuni di questi poi si rivelerann­o infetti: ma in quel momento, all’interno del Pat, ci sono già 51 pazienti in osservazio­ne con sintomi del coronaviru­s.

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(Ansa) Gli interventi A Orzinuovi, nel Bresciano, un’operazione di sanificazi­one in una Residenza sanitaria assistenzi­ale
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