Contagiati, mortalità, terapie I numeri e i termini giusti per raccontare il Covid-19
Cosa vogliamo conoscere di una malattia più di ogni cosa? Quanto sia grave, se mette a rischio la nostra vita, se può essere curata. In poche settimane, molto sembra essere cambiato della nostra relazione con la malattia e la morte. Ci siamo dovuti confrontare con eventi inevitabili a causa di una polmonite. Inoltre, l’emergenza che viviamo ha amplificato la complessità della relazione tra salute ed informazione.
Sono d’accordo con Frank Snowden, storico americano delle epidemie e della medicina, quando dice che la salute pubblica moderna dipende in realtà dalla libera informazione. A pensarci, dunque, è davvero sconcertante vedere come questi due concetti — libera informazione e suo utilizzo — non abbiano saputo conciliarsi nella nuova realtà che stiamo vivendo. Se così fosse, avremmo assistito forse a comportamenti più omogenei tra i Paesi del mondo, o almeno
Chi è europei, nelle strategie di contenimento dell’epidemia e di ripresa della vita economica e sociale, concordi nell’analisi e nell’azione. Invece no. Forse perché prima di definire l’organizzazione sarebbe bene condividerne principi e metodi.
Quanti soggetti sono oggi infettati da Covid-19? Non possiamo saperlo. Dipende dallo strumento che utilizziamo. La sensibilità del tampone — cioè la percentuale di soggetti infettati che risultano positivi — sembra essere dell’80%. Ciò significa che in 100 soggetti infettati, il tampone può essere negativo in 20. Non significa che la metodica non sia efficace; significa che alcune variabili non la rendono sensibile al 100%. I Paesi non hanno adottato una politica uniforme di campionamento dei cittadini. L’italia, neppure tra le diverse Regioni. Quindi, ciò che conosciamo è solo il numero di soggetti positivi tra coloro che hanno fatto il test, ricordando che la sua sensibilità non è del 100%. Possiamo invece conoscere il numero di pazienti ricoverati, di quali terapie hanno avuto bisogno, la loro efficacia e quanti sono tornati a casa dall’ospedale. Lo potremmo sapere per ogni Paese
del mondo ed avere quindi dati confrontabili?
Resta un’importante domanda: qual è la sua letalità? Cioè, in quanti pazienti infetti la malattia è così grave da condurre alla morte. La preoccupazione di tutti è l’elevato numero di decessi in Italia rispetto agli altri Paesi. In realtà, non possiamo affermarlo con certezza finché non sarà usato lo stesso metro di paragone. L’unico calcolo oggi attendibile è quello sui pazienti ricoverati, cioè coloro con sintomi più gravi e a più elevato rischio. Un recente studio su pazienti ricoverati nelle rianimazioni della Lombardia ha
I Paesi non hanno adottato una politica uniforme di campionamento: l’italia, neppure tra le diverse Regioni
riportato una letalità del 26%. Un altro condotto all’ospedale di Crema sui pazienti ricoverati in qualsiasi reparto del 17,5%. Gli studi cinesi condotti con analoga metodologia hanno riportato una letalità ospedaliera compresa tra il 28% e l’11%. Quindi, il concetto di letalità è relativo al denominatore su cui lo si misura. Quando l’emergenza sarà passata, conosceremo anche la letalità complessiva, che sarà probabilmente più bassa perché moltissime persone hanno avuto sintomi modesti, e chissà quante nessun sintomo.
Infine, abbiamo una terapia? Si parla di vari farmaci, ma ricordiamoci che sono tutti protocolli sperimentali. Quindi al momento la risposta è no, a parte le terapie sintomatiche. È una risposta dura, ma chi fa il medico sa quanto sia importante spiegare in modo chiaro la differenza tra possibilità concrete e ipotesi di cura. Le malattie rendono pazienti e familiari emotivamente più fragili. I ricercatori e i medici per primi dovrebbero essere molto attenti a che le ipotesi non siano comunicate come quasi certezze. In questa fase, quindi, sarebbe bene commisurare il numero di parole in modo proporzionale alle conoscenze. Altrimenti la libera informazione non sarà più uno strumento a favore della salute pubblica, ma solo un modo per aumentarne il disordine.