Scaroni: il greggio sotto zero? Ora sono gli Usa a dover agire
Paolo Scaroni, deputy chairman di Rothschild, prima di arrivare alla presidenza del Milan è stato amministratore delegato dell’eni per nove anni, dal 2005 al 2014. Un periodo lungo, ma mai gli è capitato di vivere la stagione dei prezzi negativi del petrolio, la novità storica di oggi.
Come si è arrivati a uno scenario del genere?
«Per capirlo bisogna riportare l’orologio a prima della crisi, quando i consumi mondiali erano a 100 milioni di barili al giorno. Di fronte agli Stati Uniti, che negli ultimi dieci anni hanno visto crescere la loro produzione di 7 milioni di barili al giorno, solo Arabia Saudita e Russia hanno fatto un passo indietro. Pensiamo allo scorso gennaio: il prezzo di 60 dollari al barile permetteva ai produttori di shale oil americano, circa 6 milioni di barili al giorno, di campare abbastanza bene».
E poi che cosa è successo?
«Che con la pandemia e i lockdown i consumi sono scesi a 70 milioni di barili al giorno. L’arabia Saudita avrebbe voluto tagliare ancora, ma i russi si sono opposti, perché i produttori americani sarebbero andati avanti come sempre, e per loro nulla sarebbe cambiato. Così anche i sauditi non hanno tagliato. Il risultato è l’intasamento di oggi».
Ma i prezzi negativi?
«La risposta all’ingorgo di petrolio è avvenuta in due modi: nel resto del mondo si stanno riempiendo le petroliere fino all’orlo. Negli Usa, che sono un mercato bloccato, si è arrivati a prezzi negativi. Ma lo definirei un “incidente tecnico” del Wti, la qualità di greggio nordamericana. Probabilmente si ripeterà anche sulle scadenze di giugno, ma non attribuirei a questo evento troppa importanza. Noi dobbiamo seguire il Brent, il greggio non americano».
Finito il lockdown quindi tutto tornerà come prima?
«Fino a che le economie saranno ferme la domanda resterà debole e il prezzo del Brent sotto 20 dollari al barile. Quando i lockdown saranno rimossi la domanda tornerà progressivamente a 100 milioni di barili, ma i prezzi non torneranno a 60 dollari».
Perché?
«Perché la Russia non vuole più tagliare le sue produzioni mentre gli Usa producono a manetta, incuranti di quanto accade nel mondo. Ecco, mi attendo una qualche contromisura da parte americana, anche se la loro stessa legislazione non lo consente. Però è altrettanto vero che per troppo tempo hanno pensato solo ad accrescere le quote di mercato lasciando agli altri l’onere di ridurre le produzioni. Ora si devono un po’ guardare allo specchio».
Il presidente Trump ha però avallato l’accordo sui tagli Opec+, non è vero?
«Ma non ha preso impegni concreti. Se i prezzi resteranno così, gli Usa ridurranno la loro produzione solo perché sotto i 35 dollari al barile lo shale oil diventa antieconomico. E poi non va dimenticato che in questa situazione verrà a galla un altro grave problema: le compagnie di shale oil sono indebitate per più di 100 miliardi di dollari e sono sull’orlo del fallimento. Sarebbe un macigno su tutta l’economia che l’amministrazione deve rimuovere».
Se il presidente non può ridurre la produzione di petrolio non si tratta di un problema senza soluzione?
«Certo, l’amministrazione non può imporre tagli, sarebbe contro le leggi. Ma in questo periodo eccezionale può provare altre misure speciali, come sovvenzionare i produttori perché lascino il petrolio sotto terra. Leggo ad esempio che il governatore del Texas sta cercando di limitare le estrazioni proprio facendo leva sugli stoccaggi ormai pieni. È difficile, ma è un problema che va risolto. E a soffrire terribilmente non sarebbero solo i produttori americani, ma anche le economie degli Stati più deboli. Penso a Paesi molto popolati come la Nigeria, l’angola, l’egitto, oppure ad Iraq e Iran».
Ma la domanda resta la stessa: come se ne esce? E dove si potrebbe trovare un compromesso fruttuoso per tutti?
«Non credo ci siano alternative a un’intesa tra i primi tre produttori mondiali, Stati Uniti, Russia e Arabia Saudita, più Kuwait e Emirati, che fanno quasi la metà dell’output mondiale. Se si mettessero d’accordo sulla base di sacrifici coerenti il prezzo del barile potrebbe stabilizzarsi sui 4050 dollari, che mi sembra un prezzo sano».
Che significa «prezzo sano»?
«Un prezzo che i consumatori possono permettersi e che consentirebbe di evitare il fallimento dei produttori di shale oil e dei Paesi produttori di petrolio, in sofferenza per le loro entrate falcidiate dalla crisi».
Nel resto del mondo le petroliere si stanno riempiendo fino all’orlo, negli Usa il prezzo è negativo ma è un incidente tecnico
Trump non può imporre tagli ma può sovvenzionare i produttori affinché lascino il petrolio sotto terra