Il medico della longevità
Carlo Vergani, 82 anni, è tra le vittime del virus Si è battuto per un’idea di longevità come risorsa «Troppi vecchi oggi vivono fragili e dimenticati»
Era «il medico dei vecchi», lo studioso della nuova longevità. Il geriatra Carlo Vergani aveva 82 anni. Era entrato in ospedale per un intervento al cuore. Alla fine ha deciso il Covid.
S e n’è andato anche lui, il medico dei vecchi, lo studioso della nuova longevità. È morto come tanti anziani in questi giorni, solo e senza un saluto. Era in ospedale per un intervento al cuore, ordinaria manutenzione aveva detto in famiglia. Alla fine ha deciso il Covid.
L’ho chiamato tante volte in queste settimane, ma Carlo Vergani non rispondeva più. Aveva lasciato in sospeso un articolo per il Corriere, si interrogava sulle ragioni di questa pandemia, sulla facilità con la quale colpiva gli anziani fragili, sulla concomitanza delle patologie polmonari e cardiache. «Vai avanti tu», mi aveva detto. Non ci sono riuscito. Era impossibile aggiungere qualcosa di sensato a un testo che finiva coagli me un viaggio nell’ignoto che lascia tutto in sospeso: «...Alla fine il problema più urgente sarà quello di trovare un medico, non solo una cura...».
Carlo Vergani aveva 82 anni. Era uno dei maggiori esperti italiani dei problemi relativi all’invecchiamento e dei disturbi cognitivi legati all’età avanzata. Credeva nel medico della persona, nell’assistenza continuativa, integrata, sociosanitaria, con una rete di servizi sul territorio. Aveva intuito tra i primi la rivoluzione della nuova longevità nell’apprendistato in America, ricercatore al Medical Center di San Francisco. «Bisogna esplorare le ragioni biologiche della speranza nell’invecchiamento», gli aveva detto il padre della geriatria, Robert Butler.
Al rigore della scienza lui aveva aggiunto l’umanità. «Non basta vivere a lungo, si deve vivere meglio», ripeteva allievi della scuola di Gerontologia dell’università Statale di Milano: l’ha fondata nel 1987, prima non esisteva. È nata con lui anche la divisione di Geriatria al Policlinico, tra le più avanzate d’italia.
Si batteva per la vecchiaia positiva, per la longevità intesa come risorsa, non solo come problema. Ma aveva un’idea precisa dei limiti dell’assistenza e delle anomalie del sistema sanitario. «È inadeguato, va riformato. Oggi i pronto soccorso sono affollati di anziani che in troppi casi non trovano i servizi sul territorio o ignorano le modalità per accedervi».
L’aumento della speranza di vita, rifletteva con lo scrittore Claudio Magris, si porta dietro un’opaca disperazione: «Troppi vecchi oggi non vivono ma sopravvivono, fragili e dimenticati».
Quando visitava il cardinal Martini, condivideva con lui la necessita «di dare volto, vo
ce e parola alla malattia». La conclusione era questa: c’è una medicina sbagliata che privilegia il giovanilismo come normalità, e per l’anziano questa linea è l’emarginazione
Quando abbiamo scritto «Ancora giovani per essere vecchi», un libro per il Corriere che è stato tradotto in giapponese, ha voluto chiudere il suo capitolo con due considerazioni. Sui giovani. «Non c’è comunità se non c’è solidarietà fra generazioni». E sui sogni. «Bisogna darsi sempre dei traguardi, contando i giorni verso Itaca lontana», come nella poesia di Kavafis: «...Senza di lei mai ti saresti messo in viaggio/ che cos’altro ti aspetti?».
La vecchiaia, diceva, è la soglia di una nuova avventura. Poi è arrivato il Covid.