L’ ÉLITE NON FA PAURA SE È FRUTTO DELL’IMPEGNO E NON DEL CENSO
L’ECOBONUS? PUÒ SALVARE AULE E PALESTRE
Tra le misure ancora in bianco del Decreto Rilancio c’era fino a ieri la rivisitazione dell’«ecobonus», che ha avuto molto successo negli anni scorsi: ristrutturazione della casa a fini di risparmio energetico con relativo, sostanzioso, credito di imposta. Un modo per rilanciare, appunto, l’edilizia, primo motore di tutte le ripartenze economiche. L’incertezza delle ultime ore riguarda dettagli non secondari, come l’ammontare del credito (si è partiti con il 110%, si sarebbe poi scesi all’80%, comunque al di sopra del 50-65% degli anni passati) mentre nelle ultime bozze rimarrebbe la sua «bancabilità», ovvero la cessione anche più volte a «soggetti terzi». Il bonus ha funzionato abbastanza bene nelle precedenti versioni e probabilmente riscuoterebbe ancora maggior successo in queste nuove più generose scritture. Ma allora, ci si potrebbe chiedere, perché far ristrutturare gratis o quasi (perché questo sarebbe il risultato) solo le abitazioni private quando c’è un immenso bisogno di interventi sul patrimonio pubblico, in particolare sulle scuole? In un rapporto della Fondazione Agnelli di poco tempo fa si sosteneva che per rinnovare i circa 40mila edifici scolastici oggi attivi in Italia (150 milioni di metri quadrati su cui lavorare) servirebbero almeno 200 miliardi di euro. E allora perché non far rientrare proprio le scuole in quel meccanismo dell’ecobonus con credito d’imposta «bancabile»? Magari abbassando a un sempre appetibile 70-80% il credito per gli interventi sulle abitazioni delle famiglie e concedendo il 100-110% alle imprese private che ristrutturano edifici scolastici? Oppure incentivando col medesimo meccanismo forme di cooperazione pubblicoprivata? Certo, 200 miliardi di euro rappresentano una cifra inarrivabile, ma si potrebbe partire da quell’8,6% di scuole che ha «almeno» un problema strutturale. Per non parlare di quelle che ne hanno due o tre.
Puoi condividere sui social network le analisi dei nostri editorialisti e commentatori: le trovi su www.corriere.it
C aro direttore, l’epidemia da coronavirus ha colpito il mondo intero senza badare a confini, anche se l’italia è stata fra i Paesi più flagellati. Lo ha fatto con una velocità che ha reso tardive quasi tutte le reazioni. Ha scatenato conseguenze sociali ed economiche di cui stiamo solo ora rendendoci conto. Ha riportato all’attenzione generale la centralità della conoscenza e della scienza.
Nel nostro Paese alcune categorie di scienziati sono state prese d’assalto dai media, assetati di verità assolute, e qualche esponente di quelle categorie non ha resistito al fascino delle luci della ribalta. Ma la scienza non è possesso della verità, è invece la sua ricerca incessante; procede per tentativi ed errori e ogni tanto getta potenti fasci di luce a illuminare il nostro cammino. L’ignoranza mantiene sempre nell’oscurità.
Una circostanza drammatica, estrema, come un’epidemia rivela quanto ciascuna comunità nazionale, l’umanità intera, dipenda dalla conoscenza accumulata. In Italia questa riscoperta è stata particolarmente amara, dopo alcuni anni di sventata infatuazione per il semplice e il facile, e di disprezzo per il complesso e il difficile.
L’italia ristagna da un quarto di secolo. Rischia un declino storico lungo e inarrestabile. Questo accade anche perché non riusciamo a mettere a frutto il nostro grande potenziale di coltivazione, di affinamento, di trasmissione della conoscenza, che discende dalla storia del nostro Paese, forse dall’innata capacità dei suoi cittadini. Forze contrarie vi si sono opposte finora. Ne indico tre: la disciplina giuridica dell’istruzione universitaria, i criteri di finanziamento delle università, l’orientamento popolare verso la conoscenza.
Poiché le università italiane sono in larghissima prevalenza sostenute da denaro pubblico, le norme che le disciplinano sono ispirate dagli stessi principî di controllo asfissiante e capillare ex ante che si applicano alle pubbliche
dBurocrazia
Oggi gli atenei non possono spendere neanche un centesimo senza che almeno dieci firme siano apposte
amministrazioni. Neanche un centesimo può essere speso senza che almeno dieci firme siano apposte su altrettante scartoffie. L’idea di fondo è che chiunque maneggi denaro pubblico sia corrotto e vada scovato prima che faccia troppi danni. Naturalmente, il marasma burocratico consente ai pochi veri corrotti di agire quasi sempre indisturbati e alla gran massa degli onesti che fanno funzionare le università di fare una gran fatica inutile, quasi paralizzando l’istruzione terziaria.
Il finanziamento pubblico è in larga misura assorbito dagli stipendi del personale, uguali per tutti a parità di grado e di anzianità. La componente cosiddetta
L’OCCASIONE PER RIORDINARE GLI ENTI PUBBLICI
premiale, legata a indicatori di merito accademico degli atenei, è minima.
Lo studio, i saperi, la conoscenza da molti anni godono di bassa reputazione presso il grosso dell’opinione pubblica. Gli stessi datori di lavoro, nel fissare la retribuzione di un addetto, riconoscono agli studi che questi ha fatto e alla loro qualità meno importanza che in altri Paesi, sicché l’incentivo per i giovani a impegnarsi di più nello studio è minore, in un circolo vizioso.
Faro della conoscenza avanzata in Italia sono le Scuole Superiori a ordinamento speciale. Tre di esse,
dApertura
Il gotha culturale di una democrazia ben funzionante è una struttura sociale mobile e permeabile
la Normale, la Sant’anna e lo Iuss, si sono riunite tre anni fa in federazione per affermare insieme la forza dell’insegnamento e della ricerca di eccellenza nel nostro Paese. La più antica tra loro, la Normale di Pisa, è anche la più nota, ed evoca nel più vasto pubblico i valori della conoscenza ottenuta attraverso studi difficili. Ma anche la Scuola Sant’anna di Pisa, a suo tempo annessa alla Normale ma autonoma da oltre trent’anni, si è fatta conoscere per il suo impegno nelle scienze applicate, sperimentali e sociali. Alle due scuole pisane si aggiunge la Scuola Iuss di Pavia, più piccola e più giovane, che persegue gli stessi scopi.
I tre istituti federati sono gli unici in Italia che offrano ai neodiplomati delle scuole secondarie corsi di laurea paralleli e simultanei a quelli universitari, raddoppiando con ciò lo sforzo chiesto ai loro allievi. Questi vengono ospitati in collegi residenziali, anche per favorire lo scambio interculturale fra loro. Organizzando ogni anno un concorso estremamente selettivo ma aperto a tutte le aree del Paese e a tutti gli strati sociali, per l’ingresso nei loro collegi e nelle loro aule, le tre scuole svolgono un formidabile esercizio di democrazia e rivestono un ruolo fondamentale per lo sviluppo del Paese. Chi esce da una di esse, al termine di un durissimo percorso di apprendimento, entra nell’élite culturale del Paese.
Non dobbiamo aver paura di questa parola – élite – se è il frutto dell’impegno individuale e non del censo, se quell’impegno è consentito in partenza a tutti indipendentemente dalla famiglia di origine. L’élite culturale di una democrazia ben funzionante è una struttura sociale mobile e permeabile; è ciò che consente alla comunità che la esprime di essere alla frontiera della modernità. Se un Paese avanzato mortifica la sua élite culturale e i centri in cui questa si forma, taglia il ramo su cui è seduto e finisce col precipitare nel sottosviluppo.
Questo momento drammatico, in cui in Italia si torna a guardare con favore alla conoscenza al punto da scambiarla a volte per fonte di oracoli, va colto almeno per un aspetto: potenziare conoscibilità e ruolo degli studi avanzati, di cui le Scuole Superiori sono alfieri nel nostro Paese.