Gli scienziati e gli scrittori Voci sul futuro
Da domani con il «Corriere» il volume che con i suoi (grandi) autori raccoglie riflessioni, paure e difficoltà di questi giorni stravolti dal virus. E un paio di lezioni
Diciassette voci di scrittori e scienziati. Che ci accompagnano dentro le emozioni e le paure che abbiamo provato in questi giorni di isolamento. Raccolte in un libro. Da domani in edicola con il Corriere.
Il 21 febbraio il nostro mondo cambiò. E lo fece partendo da una cittadina, Codogno, di cui tanti, in Italia, non conoscevano forse l’esistenza. Provincia di Lodi, porte di Milano. Luogo di produzione, traffico e scambi, come sanno esserlo tanti comuni dell’area padana. Esempio perfetto del mondo globalizzato, interconnesso e per sua natura esposto al contagio. Aperto alla diffusione di un virus sconosciuto, imprevedibile, mortale nelle sue forme più gravi. Ci ha colti di sorpresa, impreparati, scettici sulla sua reale forza distruttiva. È un affare cinese, abbiamo pensato. Non ci siamo preoccupati quando una coppia di cittadini del Paese orientale è stata ricoverata nell’ospedale Spallanzani di Roma. D’altra parte anche esperti di valore ci dicevano che non dovevamo avere timore. Poi è arrivato il «paziente uno» di Codogno, sono arrivate la paura e la trasformazione delle nostre vite. Ci sono voluti un po’ di giorni per capire che il «paziente uno» non era davvero il primo, che il Covid19 circolava tra di noi già da metà gennaio. Quando lo abbiamo capito forse era troppo tardi. Oppure non abbiamo fatto le cose giuste, come ad Alzano e Nembro, altri due comuni entrati nell’immaginario tragico di questa emergenza. Anche loro non paesini di montagna, come l’appartenenza alla Val Seriana potrebbe far pensare, ma luoghi al centro della fitta rete industriale tra Bergamo e Brescia.
Il «Corriere della Sera» ha chiesto a scrittori, intellettuali, medici e scienziati di raccontare i loro giorni al tempo del virus. Le nostre vite cambiate, le difficoltà, le esperienze e le fragilità di individui e collettività alle prese con una crisi che non ha avuto uguali nel dopoguerra. Ognuno lo ha fatto a modo suo, chi con un racconto breve, chi con una riflessione, chi con un bilancio di quello che abbiamo imparato. O con la descrizione di giornate conquistate da attività quasi dimenticate (impastare, far lievitare, stirare, pulire, disinfettare) o riconquistate dal silenzio e dagli sguardi persi in quello che c’è oltre le finestre e i balconi di casa.
André Aciman, Silvia Avallone, Ilaria Capua, Teresa Ciabatti, Maurizio de Giovanni, Catherine Dunne, Richard Ford, Paolo Giordano, Etgar Keret, Claudio Magris, Alberto Mantovani, Dacia Maraini, Eshkol Nevo, Antonio Scurati, Leïla Slimani, Olga Tokarczuk, Sandro Veronesi: le loro pagine ci portano dentro le emozioni, le paure, le riflessioni e le divagazioni che ciascuno di noi ha provato e vissuto in questi giorni di isolamento. Gli appartamenti sono diventati prigioni in cui gli italiani si sono chiusi più disciplinatamente di quanto mai avremmo immaginato. Abbiamo gridato all’inizio «andrà tutto bene», abbiamo cantato l’inno di Mameli alla finestra per far sapere al virus che non ci avrebbe piegato. Poi, con un’ansia crescente, ci siamo resi conto che non stava andando tutto bene: le bare trasportate dai camion dell’esercito, i bollettini impietosi dei morti stavano lì a ricordarcelo: mille, cinquemila, diecimila, più di ventimila. Come poteva andare tutto bene se le nostre città e i nostri comuni si stavano svuotando dei nostri padri e dei nostri nonni? Se la fila per ottenere i buoni spesa diventava ogni giorno più lunga? Se dagli ospedali ci arrivavano racconti tremendi sulla caduta di chi ci doveva curare?
Abbiamo cominciato a dubitare che chi ci governava stesse facendo i passi giusti. Che ci stesse ripetendo sempre la stessa cosa, «restate a casa», perché non riusciva a dirci nulla di più concreto e confortante in termini di misure efficaci per resistere, ma soprattutto per ripartire. Si è insinuato anche il dubbio che quel parlare di «medici e infermieri eroi» fosse un modo per sfuggire alle responsabilità: non ci servono, ci siamo detti, eroi mandati senza protezioni a rischiare la vita, ma personale sanitario che in sicurezza sia in grado di curarci e tirarci fuori da questo incubo.
Il caos delle ordinanze, dei decreti, dei governatori, delle commissioni, dei governanti cresceva e parallelamente la fiducia vacillava. Soprattutto perché abbiamo capito che la battaglia sarebbe stata lunga, lunga perlomeno tutto il tempo (ancora indefinito) che ci porterà a una cura e al vaccino. Con il «Corona» dovremo convivere almeno per molti mesi. Con il carico di problemi, sospetti, difficoltà, povertà che ha portato e porterà nelle nostre esistenze. «Il virus ci ha ricordato che siamo esseri fragili», scrive nel suo intervento la premio Nobel Olga Tokarczuk, «in realtà ci stiamo preparando alla grande battaglia per una nuova realtà che non siamo ancora in grado di immaginare». Noi che eravamo abituati a non fermarci mai, a sentirci padroni del mondo, viaggiatori reali e virtuali instancabili, ora abbiamo timore di prendere in mano l’oggetto più simbolico del nuovo mondo, quello smartphone che viviamo come un pericolo da disinfettare in continuazione. Le nostre vite a distanza si sono riempite di videoconferenze e attività digitali, è vero. Ma la sospensione delle giornate ci spinge a concentrare l’attenzione su cose che avevamo rimosso. Come le piante che non avevamo veramente mai visto dai nostri balconi: un ciliegio per Silvia Avallone, un gelso bianco per Olga Tokarczuk, un cedro blu per Leïla Slimani.
L’interrogativo che corre lungo il libro è se dopo l’emergenza tutto sarà come prima o nulla sarà uguale a prima. Non lo sappiamo, possiamo immaginarlo: le nostre città saranno per tanto tempo diverse, così come le vacanze e la vita sociale. Avevamo osannato il lavoro in open space e invece dovremo stare a distanza. Non sappiamo se la politica dell’istante e dei like sui social avrà appreso qualcosa dalla lezione del contagio, ma dubitiamo fortemente vista la prova delle ultime settimane. Dobbiamo affrontare una ricostruzione avendo imparato solo un paio di cose importanti. Ce le descrive lo scienziato Alberto Mantovani: la credibilità scientifica come bussola delle nostre azioni e poi essere uniti, tutti, senza confini. Perché il mondo nuovo sarà sempre aperto e globale, e se ora desideriamo solo la montagna o la spiaggia a due passi da casa, torneremo a essere ancora esploratori di un pianeta che dobbiamo imparare a rispettare.