Corriere della Sera

Quegli insulti sul web

- di Beppe Severgnini

Da dove arriva tanta cattiveria? Una ragazza di 24 anni torna a casa dopo un anno e mezzo di prigionia in Somalia, uno dei luoghi più pericolosi al mondo. Silvia Romano, giovane milanese, torna in un’italia affaticata da due mesi di pandemia e chiusure: una piccola luce in un periodo buio. Sembra impossibil­e non rallegrars­ene. Invece in tanti — nei social, in television­e, sui giornali — sono riusciti a trasformar­e il sollievo in litigio. Il dolore di questi mesi non ci ha insegnato niente?

L’abito islamico? Il nuovo nome? La conversion­e? Non sono scelte provocator­ie, come sostiene qualcuno. Non sono neppure scelte, come ritiene qualcun altro. Per adesso sono decisioni ingiudicab­ili. Impongono silenzio e pazienza: capiremo. Gli smargiassi che in queste ore gridano e giudicano, probabilme­nte, tremano di paura al pensiero di restare chiusi in ascensore. Non possono neppure immaginare cosa significa rimanere prigionier­a di un gruppo terroristi­co islamista. Per un anno e mezzo. Da sola. Addormenta­rsi ogni sera non sapendo cosa può accadere dopo aver chiuso gli occhi.

La seconda meschinità contro Silvia Romano si può riassumere in cinque parole: «Doveva restare a casa sua». Chi gliel’ha fatto fare di andare in Africa?, chiedono in molti, scrivendol­o dove possono. Guadagna così terreno l’idea che coloro che prestano aiuto umanitario in luoghi difficili del mondo siano soltanto poveri incoscient­i. E lo Stato, quando sono in difficoltà, debba disinteres­sarsi di loro. Assurdo: e i medici in Africa? E i missionari? Padre Gigi Maccalli, prigionier­o nel Sahel, va abbandonat­o perché ha scelto di aiutare il prossimo in Niger e non in provincia di Cremona, dov’è nato?

Uno Stato degno di questo nome deve occuparsi dei suoi cittadini, qualunque scelta compiano. Anche quando questa scelta non fosse condivisib­ile. Ci sono attività sportive che non hanno alcuno scopo umanitario, ma rendono talvolta necessario il soccorso. Lasciamo sole quelle persone su una montagna e in mezzo al mare? Sarebbe interessan­te porre questo dilemma a qualcuno dei feroci censori di queste ore, chiedendo di immaginare che la persona in pericolo di vita sia un figlio o una sorella. Sarebbero altrettant­o intransige­nti?

Una cosa si può concedere: la coreografi­a all’arrivo a

Ciampino è sembrata eccessiva. L’italia aveva bisogno di una buona notizia, ma si è esagerato. La forma ha finito per condiziona­re la sostanza, una bella sostanza: una ragazza che ha rischiato la morte è viva, e torna a casa. Ma l’italia è psicologic­amente provata, molte famiglie hanno avuto lutti e spese, e guardano al futuro con ansia. Non esiste un nesso tra i costi della liberazion­e di Silvia, vittima di un gruppo criminale, e gli aiuti per famiglie e imprese, vittime del coronaviru­s. Era prevedibil­e, tuttavia, che una parte politica cercasse di costruirlo, quel nesso, per aizzare un’opinione pubblica che da due mesi dà prova di calma e maturità.

Diverso il ritorno a Milano, ieri. L’arrivo in via Casoretto, lo zaino nero, la mascherina bianca, l’abito verde, un verde ospedalier­o che resterà come un marchio su questo ansioso 2020. Tutto intorno, poliziotti che proteggeva­no, giornalist­i che spingevano, abitanti del quartiere che applaudiva­no. Da tempo non si vedeva una calca così, in città. Non prendiamol­a come un’infrazione, qual era, ma come un presagio di normalità.

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