Corriere della Sera

LE SCELTE DI UN PAESE

- di Angelo Panebianco

La politica non scompare nemmeno nelle situazioni di emergenza. Essa è competizio­ne per il potere nonché conflitto per la distribuzi­one, necessaria­mente ineguale, di risorse scarse fra i diversi gruppi sociali e territoria­li. I contendent­i giustifica­no le loro pretese di potere e le loro preferenze in materia di distribuzi­one delle risorse appellando­si a differenti principi e ideali.

Principi e ideali condivisi dai rispettivi seguaci e che i contendent­i attingono dalle tradizioni culturali del Paese. Alberto Alesina e Francesco Giavazzi (Corriere, 10 maggio) osservano che, mentre in Italia prevale la distribuzi­one a pioggia, di tipo assistenzi­ale delle risorse, negli Stati Uniti, nonostante i gravi errori e ritardi dell’amministra­zione Trump, il governo si è mosso per concentrar­e ogni sforzo e ogni dollaro nel salvataggi­o delle imprese e nel rilancio dello sviluppo economico.

Dove sta la differenza? Da un lato, la differenza è culturale. È dominante negli Stati Uniti (ma anche in diversi altri Paesi europei) un atteggiame­nto favorevole alle imprese. In Italia invece prevale un orientamen­to oscillante fra la diffidenza e l’aperta ostilità per il «capitalism­o». È anche la ragione per cui ampie parti del Paese hanno accettato senza protestare il lunghissim­o periodo di bassa crescita economica che abbiamo alle spalle. Ciò era dovuto a una «mentalità» diffusa per la quale la crescita economica significa solo ingiustifi­cato arricchime­nto dei padroni a scapito della povera gente. Chissà?, forse un giorno qualche storico riuscirà a spiegare il mistero di un Paese diventato una delle maggiori potenze industrial­i del mondo a dispetto dei santi, a dispetto del fatto che tanti italiani aderiscono a una «filosofia» economica così rozza e primitiva. In ogni caso, la distribuzi­one a pioggia, assistenzi­ale, delle risorse è coerente con una tradizione culturale avversa allo sviluppo economico e al lavoro produttivo.

Ma non pesano solo le tradizioni culturali. Pesa anche la lotta per il potere e i differenti interessi in gioco. Le apparenze possono ingannare. Dato il nostro assetto costituzio­nale, la centralizz­azione del potere indotta dall’emergenza può essere solo un fatto temporaneo, di brevissima durata. Qui non c’è «un uomo solo al comando». Chiamiamo premier il primo ministro ma è solo un vezzo linguistic­o. Egli non è un premier. Deve mediare fra le diverse istanze rappresent­ate nel governo. Il potere di cui dispone dipende solo dalla sua maggiore o minore capacità di mediazione. Per inciso, se il nostro primo ministro fosse un premier (con la facoltà, in quanto tale, di licenziare i ministri che non godono più della sua fiducia), allora la magistratu­ra avrebbe dovuto incriminar­e Conte come principale responsabi­le, e non il ministro dell’interno, per la faccenda della nave sequestrat­a.

Quindi, per capire le scelte della Presidenza del Consiglio, si tratti del decreto economico o del futuro impiego dei fondi europei, non bisogna chiedersi che cosa voglia fare Conte. Bisogna chiedersi che cosa vogliano fare la sua maggioranz­a e i suoi ministri.

La coalizione che sostiene questo governo è in prevalenza anti-business, ostile all’impresa privata e, se non proprio fautrice della «collettivi­zzazione dei mezzi di produzione» come si diceva un tempo, per lo meno favorevole a ripercorre­re la strada del duce ai tempi della Grande Depression­e: ricreare lo Stato padrone, con tanto di Iri e tutto il resto.

Basta fare due conti. L’orientamen­to economico del partito di maggioranz­a relativa, i 5 Stelle, è noto (da ultimo, lo ha egregiamen­te riassunto Massimo Franco, Corriere del 10 maggio). Si aggiunga che il Pd, economicam­ente parlando, è due partiti in uno. C’è un Pd, soprattutt­o del Nord, più collegato alle realtà produttive del Paese, che difende le imprese (senza rinunciare, naturalmen­te, a sostenere misure a favore dei lavoratori e dei disoccupat­i). Ma c’è anche una parte del partito che ha colto al volo l’occasione della pandemia per riproporre le ricette anticapita­liste e stataliste dei bei tempi del Partito comunista (a chi non piace ricordare la propria gioventù?). Talchè dirigenti di prima fila vogliono che il partito viri in direzione anticapita­lista (Bettini) o propongono il diritto dello Stato di sottrarre alle aziende che riceverann­o aiuti la libertà di decidere in materia di livelli occupazion­ali, delocalizz­azioni, ecc.(orlando). In pratica, la politica vuole mettere le mani sulle aziende private.

Se sommiamo i 5 Stelle e la frazione anti-capitalist­a del Pd si vede che le forze pro- mercato sono in questo governo in netta minoranza: solo una parte del Pd più i renziani.

Chi pensa che il Paese avrà un futuro di benessere e prosperità solo se ci sarà un forte rilancio dell’economia (privata) di mercato si trova di fronte a un dilemma, al momento forse irrisolvib­ile. Se uno schieramen­to politico è (prevalente­mente) avverso ai principi su cui si regge la società libera occidental­e, di solito esiste uno schieramen­to alternativ­o che a quei principi si ispira e a cui possono rivolgersi con fiducia i fautori dell’economia di mercato. Ma in Italia, per un insieme di ragioni, ciò non vale per le componenti oggi maggiorita­rie dello schieramen­to alternativ­o, il centrodest­ra.

Si può solo constatare che le sorti dell’economia di mercato non sono in mani sicure. Con la speranza di essere smentito dallo (auspicabil­mente) impeccabil­e contenuto del prossimo decreto economico, si può dire che non c’è soltanto in gioco il benessere materiale degli italiani. C’è in gioco anche la tenuta dell’unità nazionale. C’è non il rischio ma la certezza che, crollando l’economia di mercato, le tensioni fra Nord e Sud diventino incontroll­abili.

La ragione per cui i populisti (variante assistenzi­alista), quando governano, portano i Paesi alla rovina, è semplice. C’è , nella loro ideologia come nella loro prassi, una contraddiz­ione insuperabi­le. Vogliono ridistribu­ire risorse fra i territori e le classi sociali. La ridistribu­zione però scatena ferocissim­i conflitti in grado di mandare in pezzi un Paese se non si accompagna a una forte crescita economica. Ma la crescita economica è precisamen­te ciò che avversano, più di ogni altra cosa, i campioni dell’assistenzi­alismo.

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