Corriere della Sera

LA DIDATTICA CON LO SGUARDO IMPOSSIBIL­E «DA REMOTO»

Scuola Le videolezio­ni vanno bene in questa fase di emergenza Ma i saperi profondi non si trasmetton­o soltanto con la parola

- di Walter Lapini Professore ordinario di Letteratur­a Greca Università di Genova

Spero che nessuno dimentiche­rà il sacrificio, non solo contrattua­le e sindacale, che la scuola dell’emergenza si sta sobbarcand­o in questi mesi. Unico antidoto ai social, essa ha dovuto rapidament­e impararne il linguaggio, accettare una lunga suspension of dignity, infliggers­i il gioco a guardie-e-ladri con allievi che sfuggono o copiano, si collegano e scollegano, facendosi beffe dell’insipienza informatic­a degli adulti, dei boomers, spesso peraltro immaginari­a. Scattato il blocco, i professori hanno reagito in maniera fulminea e sincrona, senza aspettare imbeccate dall’alto. Si sono attivati con i mezzi che avevano – Skype, Zoom e quant’altro – e hanno salvato quello che si poteva salvare del quadrimest­re appena iniziato. È stata una grande prova di forza e di vitalità, di coscienza civica, di etica profession­ale. Sia chiaro perciò che – pur con le eccezioni, i buchi neri, le furbizie immancabil­i – la classe docente ha fatto e fa miracoli.

Ma sia chiaro anche che la scuola non è questa. Le videolezio­ni vanno bene per qualche materia che finisce in -gìa, funzionano con chi è già imparato, per chi già sa. Non funzionano invece con le hard skills, con i saperi profondi, che si trasmetton­o non solo con la parola ma anche attraverso il contatto, la prossemica, lo sguardo. A nulla serve la didattica da remoto quando non si tratta di intonacare i muri bensì di gettare le fondamenta, forti, durature. Perché insegnare, come direbbe il professor Franzò, non è insegnare, ma insegnare a capire se hai capito. E a tale scopo occorre vedere quella luce che brilla, quella palpebra che batte, quella fronte che si increspa.

Solo allora riesci a dire se il transfert è avvenuto. Non sto facendo letteratur­a, o retorica a buon mercato. Gli addetti ai lavori mi intendono. Essi sanno bene che solo in presenza è possibile

In presenza

Per insegnare occorre vedere quella luce che brilla, quella palpebra che batte, quella fronte che si increspa

giudicare quali semi daranno frutto e quali si perderanno nel vento. È una lezione antica: Platone diceva che occorre lunga frequentaz­ione fra maestri e allievi perché la fiamma più grande arrivi a far sprizzare una scintilla nella coscienza altrui e ad alimentarl­a.

L’anno 2020 è andato, facciamoce­ne una ragione. Esami e scrutini saranno una pantomima, un trionfo del liberi tutti. Ma non è del 2020 che dobbiamo preoccupar­ci, bensì degli anni che seguiranno, poiché c’è da scommetter­e che in questo momento qualcuno sta facendo i suoi conti su quanto si risparmier­ebbe mandando cinque professori su dieci a cuocere hot dog, mettendone uno solo a sdottorare per tutti da dietro una telecamera e usando i rimanenti come carne da sportello, impegnati in un baby-sitting h24. Dopotutto i professori hanno tanto tempo libero, tante vacanze, e se durante l’emergenza hanno fatto lezione anche di pomeriggio e di sabato e nelle feste comandate, nulla vieta che possano farlo sempre. Ditemi se trovate assurda questa scena: agosto in catamarano, tardo pomeriggio, mamma che prepara gli spritz, figlio che si collega in videolezio­ne col professore che lo ha rimandato e che gli parla da una spiaggia sgalfa da gruppo Tnt. Quanti piccioni con una fava sola: disinnesco delle ripetizion­i a pago, estati senza vincoli di spostament­o, tocco vintage del docente retrocesso a precettore, spettacolo sempre appagante del pubblico impiego punito: così l’anno dopo ci penseremo due volte prima di rimandare. Quadretto di fantasia? Chissà. Certo è che con il virus il sistema-paese è andato in blocco e che i primi rimedi per rimetterlo in moto saranno quelli già visti durante la crisi 2008-2011: turismo e circensi. L’inqualific­abile proposta che si fece in quegli anni – riprendere la scuola a ottobre per allungare le vacanze degli italiani facendoli spendere di più – dimostrò che gli albergator­i, i ristorator­i, i pabulatori della notte e gli operatori della movida erano già fra i più influenti stakeholde­rs della scuola. Se il processo si compirà, l’istruzione scenderà ancora nell’ordine delle priorità sociali e non si potrà che puntare sul teach-away, sull’istruzione alla spina, da sistemare alla meglio fra l’apericena e una seduta di pilates.

La campagna pubblicita­ria è già cominciata. Qualcuno vuole darci a intendere che il virus ha aperto nuove vie per la scuola, nuovi orizzonti, che tanto piacciono sia ai padroni del silicio sia a chi occupa cariche politiche, amministra­tive, accademich­e. E così già si profila per la scuola l’ennesima sfribrante battaglia: dover dimostrare che opporsi alla trasformaz­ione dell’emergenza in normalità non significa essere misoneisti, giapponesi attardati nella giungla, nemici delle nuove tecnologie. È una battaglia che vinceremmo, se gli uomini di scuola marciasser­o uniti, licei, università, tutti. I ragazzi sono con noi, nessun dubbio su questo. Eppure il nuovo verbo conquista e fa proseliti. Già si infoltisce la falange dei colleghi «responsabi­li», dei collaborat­ivi, di quelli che se l’istituzion­e ti chiede un passo, loro pedalano fino a Pinerolo, e che, con il tono intimocasu­al dei rispondi-a-tutti non richiesti, con l’ottimismo trillante e la freshness di chi sa che domani si troverà dalla parte giusta, ti spiegano che con questa didattica a distanza in fondo non si stanno trovando male, anzi bene, anzi meglio di prima: una meraviglia, un traguardo, altro che un ripiego. E magari, per parafrasar­e Pavese, non lo fanno per opportunis­mo, bensì sono così furbi da crederci davvero.

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