Corriere della Sera

«Il riscatto ha due facce»

Nobili, il pm alla guida dell’antiterror­ismo milanese: «Il blocco dei beni in Italia ebbe successo, però in altri contesti le dinamiche diventano incontroll­abili. E serve realismo»

- di Luigi Ferrarella

Il magistrato dell’antiterror­ismo Alberto Nobili: «Niente riscatti in patria, ma all’estero bisogna essere realisti».

«Lo Stato che paga un riscatto all’estero, mentre in Italia applica una legge che dal 1991 impone alle famiglie il blocco dei beni proprio per impedire il pagamento del riscatto, di primo acchito appare una contraddiz­ione, e anche una disparità tra cittadini parimenti ostaggi ma destinatar­i di trattament­o diverso. Però in concreto è un discorso di quelli che non si possono tagliare con l’accetta, perché, laddove in un sequestro all’estero si sovrappong­a una molteplici­tà di altre dinamiche e disparati interlocut­ori (emissari veri o finti, numerose bande, svariate organizzaz­ioni, interessi di più Stati) la trattativa diventa inevitabil­e. Per me l’ideale è spingere a livello internazio­nale sulla linea della compattezz­a nel non pagare mai. Ma, se questo sfiorasse l’utopia, occorrereb­be almeno che i vari Stati convergess­ero su protocolli di “cordone sanitario” attorno a categorie esposte come i cooperanti, e che nel contempo però anche le Ong alzassero gli standard di preparazio­ne dei propri inviati per prevenire che cadano nella rete dei sequestri».

Alberto Nobili, in magistratu­ra, è sinonimo di sequestri di persona. Perché, tra i pm, l’attuale coordinato­re dell’antiterror­ismo milanese é un proverbial­e esperto del settore, di cui ha vissuto le stagioni truci da 33 rapimenti in un anno a Milano e hinterland: «La regola del blocco dei beni, e cioé il messaggio dello Stato che il sequestro non avrebbe più fruttato una lira, ebbe efficacia».

Ma c’é una differenza: in Italia lo Stato può decidere, con qualche chance, di mettere a ferro e fuoco un certo ambiente, rischiando la vita dell’ostaggio per arrestare i rapitori, mentre in una terra di nessuno tra Kenya e Somalia é velleitari­o.

«Certo. E proprio per questo, se è innegabile che all’estero gli italiani appaiano prede ambite perché il loro Stato alla fine paga (e gli altri Paesi talvolta ci rimprovera­no di finire così per armare i terroristi), è altrettant­o innegabile che questi rapimenti avvengono appunto in aree nelle quali si sovrappong­ono interlocut­ori, bande, emissari, fazioni, entità sia statuali sia non statuali, tutti in cerca di un tornaconto».

Il «New York Times» ha stimato che i vari Stati, compresi quelli che a parole non pagano, di nascosto abbiano invece versato riscatti per 125 milioni dal 2008. I blitz militari sono spesso disastrosi (come l’attacco americano nel quale nel 2015 morì il cooperante Giovanni Lo Porto). E anche Paesi più portati alla linea dura, come Israele, non rinunciano talvolta a trattare anche solo per riavere il cadavere di un proprio soldato. Che deve fare un Paese come l’italia?

«In linea teorica lo Stato, per coerenza con la normativa che applica nei propri confini, se fosse l’unica contropart­e dovrebbe non pagare. Per coerenza. Ma per realismo, in frastaglia­te situazioni estere come quelle descritte prima, nelle quali peraltro scoppiereb­be il finimondo il giorno dopo che i rapitori non pagati facessero trovare la testa tagliata dell’ostaggio, é chiaro che lo Stato debba fare di tutto, riscatto compreso, per salvare un proprio concittadi­no. Perché salvare la vita, come avvenuto con successo per

Silvia Romano grazie ancora una volta allo straordina­rio lavoro sul campo degli uomini delle agenzie di sicurezza, resta sempre l’obiettivo primario. E perché è inutile mostrare i muscoli in contesti geostrateg­ici dove non abbiamo possibilit­à di farli valere. Per questo andrebbe promosso un accordo a livello internazio­nale nel quale gli Stati, almeno quelli occidental­i, concordass­ero tutti assieme l’impegno a non pagare mai riscatti».

Utopico, non crede?

«Se è così, sempre a livello interstatu­ale si dovrebbe almeno arrivare a una intesa su alcune condizioni minime di sicurezza dei cooperanti, una sorta di cintura di protezione».

Molte Ong riescono però a operare in contesti estremi proprio perché non sono, e non vengono lì percepite, come legate a qualche Stato.

«E allora occorre che le Ong si assumano la responsabi­lità di assicurare sia una maggiore preparazio­ne ai propri inviati, sia idonee garanzie (referenti, appoggi in caso di emergenza, modi di reperibili­tá) a tutela della sicurezza del loro personale».

L’ideale

Serve un’intesa su condizioni di sicurezza minime per i cooperanti

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Chi è Alberto Nobili, 67 anni, pm milanese, guida l’antiterror­ismo

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