Le Ong e il vuoto riempito
Divisioni La vicenda di Silvia Romano ripropone la questione delle organizzazioni non governative e del loro ruolo di fronte all’immigrazione e alla povertà
La vicenda di Silvia Romano e il ruolo delle Ong di fronte a immigrazione e povertà.
L a gazzarra attorno a Silvia Romano mostra purtroppo una nazione spaccata che non trova tregua neppure nella gioia per il ritorno a casa di una sua cittadina. Ma, soprattutto, è solo una spia della vera questione: che non è, o non è soltanto, «quanto ci è costato» liberare la ragazza; e neppure quanto valga quella «conversione» all’islam all’esito di 18 mesi di prigionia sulla quale sarebbe decente stendere un velo di riserbo e sobrietà piuttosto che accapigliarsi con ferocia. La vera, semplice questione è: cosa pensiamo delle Ong di fronte ai problemi che il nuovo secolo ci pone sull’immigrazione, sull’africa, sulle povertà? A cosa servono le organizzazioni non governative? E qual è la loro natura? Sono associazioni per delinquere che, ammantandosi di buonismo, fanno soldi sulla pelle degli ultimi? Sono, al contrario, raggruppamenti di eroici giovani che rispondono con coraggio alle sfide del tempo? Sono pirati o salvatori? Attraggono i migranti o evitano la morte in mare di chi partirebbe comunque? Su queste domande il Paese è diviso lungo una linea di frattura che non sempre corrisponde agli schieramenti di partito e alle maggioranze governative. In ballo ci sono sensibilità, cultura, fede, convinzioni.
Le Ong non sono la luna ma sono il dito che la indica. L’esempio più facile da capire si trova in mare, nel tratto di Mediterraneo che più ci è familiare per le baruffe politiche di questi anni. E la questione nasce il 3 ottobre 2013, quando in un naufragio a poche miglia da Lampedusa annegano 366 migranti davanti ai nostri occhi. Sotto il forte impatto emotivo di quei morti (riemergono cadaveri di bambini e di mamme col feto ancora in grembo…) il governo di Enrico Letta vara la missione Mare Nostrum, interamente gestita dalla nostra Marina militare. L’obiettivo è spingersi fin sotto le coste libiche per salvare vite umane.
I nostri marinai lo fanno così bene che dal 18 ottobre 2013 al 31 ottobre 2014 salvano
Responsabilità La formazione dei giovani africani non è faccenda di cui noi europei possiamo disinteressarci
156.362 vite in 439 interventi Sars (Search and rescue), arrestano 366 scafisti, catturano 9 navi madri (quelle che abbandonano i profughi su barche più piccole), controllano coi loro medici di bordo il 99% dei migranti prima dello sbarco (con grande beneficio per la salute di tutti noi). Un successo. Ma i tempi cambiano. La missione costa 9 milioni al mese: troppi, si dice. Il nuovo governo Renzi è virato sull’efficientismo, cancella la missione mentre il ministro degli Interni, Angelino Alfano, vende come un successo la nuova missione Triton, gestita stamesso volta da Frontex, l’agenzia europea che controlla le frontiere. Si tratta di una bufala. Triton non ha, chiariranno i nostri partner europei, alcun obiettivo di salvataggio.
Le nostre navi devono arretrare di decine di miglia. Non più pattugliato dalla Marina, il nostro mare torna mare di nessuno, di scafisti e banditi libici, di morti. È in questo vuoto che si inseriscono le Ong. Possono piacerci o meno, possono mandarsi o meno segnali d’intesa coi barconi, ma stanno lì perché noi non ci siamo più, perché l’italia si è ritirata e l’europa non ci pensa proprio a prenderne il posto. Al netto delle accuse lanciate da Matteo Salvini e Luigi Di Maio (il copyright sui «taxi del mare» è del giovane grillino attualmente al governo con il Partito democratico), è inevitabile rilevare due dati di fatto: nessuna delle inchieste aperte finora (talune con grande clamore mediatico) ha dimostrato un «cartello» tra Ong e organizzazioni degli scafisti; i ricercatori dell’autorevole istituto Ispi (con quasi 90 anni di reputazione internazionale) hanno invece dimostrato dati alla mano come non esista alcun pull factor, ovvero come la presenza in mare delle navi Ong non sia un fattore di attrazione per ulteriori partenze: i migranti sono spinti da guerre, fame, terrore o più banalmente speranza; e partono comunque.
Silvia Romano non andava per mare. Ma esercitava anche lei un’opera di sostituzione, minuscola e preziosa, nel villaggio keniota di Chakama. Si occupava, con attività di strada, di piccoli orfani. Aveva su una «Ludoteca nella Savana», nel libro dei sogni c’era un orfanotrofio in muratura per dare un’istruzione ai bimbi. Perché sostituzione? Perché la formazione dei giovani africani non è faccenda di cui noi europei possiamo disinteressarci. Un continente che si trova di fronte a noi nel Mediterraneo e nel 2050 avrà due miliardi e mezzo di abitanti, metà dei quali con meno di 25 anni, ci interpella fortemente, ben al di là delle chiacchiere sul piano Marshall per l’africa che ogni leader europeo usa per coprire il proprio vuoto di idee. C’è chi sostiene che la piccola Ong di Silvia abbia omesso le debite precauzioni: lei non era neppure assicurata. Di certo la cooperazione va gestita senza improvvisare, le Ong fai-da-te sono un pericolo prima di tutto per chi ci lavora, servirebbe qualche regola. Ma a Chakama, al posto di Silvia o accanto a lei, dovevano esserci maestri e funzionari dell’inesistente Unione europea, ingegneri a costruire orfanotrofi, soldati a proteggerli. Come in mare, al posto di Carola Rackete, dovevano starci ancora i nostri marinai. Non è così? Ci pare un’utopia da anime belle? D’accordo. Ma allora non stupiamoci della supplenza, non infastidiamoci per questi cerotti sulle nostre coscienze. Forse, a guardar bene, deve essere per quello che ci fanno tanta antipatia i volontari: perché, solo con le loro azioni, evidenziano la nostra inazione. Col solo loro entusiasmo, denunciano il nostro cinismo. La luna che il loro dito indica, alla fine, siamo noi.