«Così i nostri primi passi con il plasma»
«Un’intervista? Per favore, però, scriva Fausto Baldanti, virologo da laboratorio». Cinquantasei anni, sposato e con due figli, una cattedra all’università di Pavia, da 26 anni all’irccs San Matteo di Pavia. Il medico che ha protocollato la prima nuova cura italiana contro il Covid-19, ossia la somministrazione di plasma iperimmune donato dai pazienti guariti agli ammalati più gravi, ammette subito la sua allergia alla tv e ai mass media in generale: più che rilasciare interviste preferisce stare tra le provette 15 ore al giorno. La prova che è la verità è nelle sei ore di attesa per l’intervista: «Mi dispiace ma ero in una call con gli Usa. Non potevo rimandarla per il fuso orario». L’argomento della telefonata non lo vuole dire: «È ancora presto».
Quando le è venuta l’idea che con il sangue di chi ha superato il coronavirus si potesse curare chi è in terapia intensiva?
«È sabato 29 febbraio. È appena trascorsa la settimana più drammatica della mia vita da medico: i malati arrivano a centinaia, tutti insieme, in ospedale. Gravissimi. Il tasso di mortalità è pazzesco: uno ogni sei di chi entra in Rianimazione non ce la fa. Ci troviamo in laboratorio io e l’infettivologo Raffaele Bruno e ci guardiamo in faccia: “Adesso come li curiamo?”. Ai tempi non c’è nessuna terapia certa.
Il tentativo è di provare l’efficacia dei farmaci contro l’hiv con gli antinfiammatori».
Cosa vi dite lei e Bruno?
«Vuole la verità? Io non mi ricordo più chi di noi due quel sabato mattina a un certo punto azzarda: “Ma se provassimo con il plasma dei convalescenti?”. Sappiamo che una terapia simile è già stata utilizzata per l’ebola e la Sars. Ci colleghiamo online a Medline, il database sulla letteratura scientifica. Troviamo le conferme che cerchiamo».
Cosa succede dopo?
«Telefoniamo subito a Cesare
Perotti, a capo della Medicina trasfusionale. È entusiasta della nostra idea».
Come procedete?
«Il virus l’avevamo già isolato in laboratorio. Decidiamo di farlo espandere in provetta per avere delle dosi uguali da utilizzare come bersaglio del siero dei pazienti ricoverati».
Il primo test?
«È il 10 marzo. Quella notte non dorme nessuno di noi tre. I risultati arrivano a breve: più il livello di anticorpi neutralizzanti, quelli sviluppati dai pazienti che hanno avuto il virus, è alto, più la malattia di chi è ancora malato regredisce».
I risultati due mesi dopo?
«Abbiamo presentato l’ormai noto studio pilota, ossia quello che si effettua per testare un’idea. Sono stati arruolati 46 pazienti tra Pavia, Mantova e uno a Novara. La mortalità è passata a 1 ogni 16 pazienti. Sono migliorati gli indici infiammatori e i parametri dell’ossigenazione. Il nostro protocollo è richiesto da tutto il mondo. Ora servono donatori».