La lotta di Gabriella «Quelle sacche possono fare tanto»
Quando il 20 aprile è arrivata d’urgenza all’ospedale San Matteo di Pavia, ha pensato di non farcela. «Le mie condizioni non facevano ben sperare. Ho salutato mio marito Angelo e mia figlia Martina, certa di non rivederli. Loro mi hanno chiesto di lottare. Il resto l’ha fatto il plasma, la mia salvezza».
Gabriella Vigo, 64 anni, editrice pavese, è guarita dal coronavirus grazie alla plasmoterapia, nonostante un quadro clinico complicato da un cuore capriccioso andato in arresto cardiaco, e dalla leucemia. «Avevo avuto un infarto a giugno con scompensi cardiaci. Tre mesi dopo si è ripresentata la leucemia linfatica cronica, quindi hanno dovuto sottopormi a continue terapie
ematologiche». Gabriella si reca in ospedale ogni tre giorni per le trasfusioni; la paura di essere contagiata è tanta. Nel pieno della pandemia, anche guanti e mascherina non riescono a proteggerla, e quella febbre a 39 è l’inizio di un calvario lungo due settimane, ma finito bene grazie a quelle «sacche miracolose», come lei chiama il plasma iperimmune. «Ho chiesto di far parte della sperimentazione: era l’unica possibilità che avevo di salvarmi». Qualche ora dopo la firma di adesione al protocollo, le condizioni di Gabriella si aggravano: le manca il respiro e finisce per ore sotto il casco attaccata all’ossigeno. «Non c’era tempo da perdere: ho ricevuto le prime tre sacche di plasma, quei 600 ml scendevano lentamente nelle mie vene, e mi facevano sperare». Dal giorno seguente i miglioramenti sono concreti: «I valori sono tornati nella norma in breve tempo, riuscivo a respirare da sola. Con la seconda infusione ho sentito una forza incredibile».
Per lei la conferma dell’epilogo straordinario della battaglia contro il virus è scritta negli esiti dell’ultimo emocromo: «Per una malata di leucemia avere l’emoglobina a 10,8 è un miracolo. Che sia merito del plasma? Di certo ha contribuito a battere il virus e darmi nuova linfa. Vorrei sapere il nome di chi ha donato».
Le complicazioni Soffro di cuore e di leucemia, l’unico modo per sopravvivere era quel protocollo