La lezione di Gino Bartali che va oltre i confini dello sport
La cosa che più mi manca in tv, in questo non facile periodo, è il Giro d’italia. È un vuoto incolmabile. Tutti i pomeriggi, d’istinto, cerco di sintonizzarmi sui canali che trasmettevano la corsa. E ogni volta provo una delusione quasi infantile. Perché il Giro è una delle grandi feste che la nostra televisione sa ancora regalarci: l’appuntamento quotidiano, la fuga, l’arrivo di tappa, la volata.
È un lungo racconto e, a ogni colpo di pedale, si dipanano tanti altri racconti, divagazioni, scatti della fantasia, strade della memoria, fughe del pensiero, biglietto da visita del nostro Paese… Così ieri sono finito su Rai Storia per vedere un ritratto di Gino Bartali di Gianluca Miligi e Marco Orlanducci: a raccontarlo, insieme a preziose immagini d’archivio, il figlio Luigi, la nipote Lisa Bartali e l’indimenticato Gianni Mura, che amava il ciclismo più del calcio.
Si deve a Curzio Malaparte l’invenzione di Coppi e Bartali come i due volti contrapposti dell’italia: l’italia contadina e bigotta, l’italia progressista e razionalista. «Bartali appartiene a coloro che credono alle tradizioni e alla loro immutabilità, Coppi a coloro che credono al progresso. Gino è con chi crede al dogma, Fausto con chi lo rifiuta, nella fede, nello sport e nella politica così come in ogni altro campo. Bartali crede all’aldilà, al paradiso, alla redenzione, alla resurrezione, a tutto ciò che costituisce l’essenza della fede cattolica. Coppi è un razionalista, un cartesiano, uno spirito scettico, un uomo pieno di ironia e di dubbi che confida solo in sé stesso».
In realtà, grazie alle parole degli intervistati, la figura di Bartali, il «Ginettaccio» delle cronache, appare molto più complessa di quella tramandataci. Non solo perché ha contribuito a salvare famiglie perseguitate durante l’occupazione nazifascista, ma perché per lui sport e vita sono stati, insieme, una grande lezione di rettitudine e di abnegazione.