I ventilatori russi «pericolosi» arrivati a Bergamo e Milano A Mosca fuoco e vittime in corsia
Una fiammata, una morte orribile. Il primo caso sabato sera, a Mosca: un malato di Covid ansima attaccato a un ventilatore polmonare nell’ospedale Spasokukotsky e all’improvviso l’apparecchio inizia a surriscaldarsi. S’incendia. Lo uccide. La notizia non viene troppo diffusa, per non creare allarme e perché in fondo «s’è trattato del difetto d’una macchina», una soltanto.
Ma lunedì mattina la tragedia si ripete, alle 6.23 nella terapia intensiva della clinica San Giorgio di San Pietroburgo, e stavolta c’è poco da coprire. I venti ricoverati di coronavirus, intubati coi respiratori, sono investiti di nuovo dal fuoco. Fumo, urla, panico. In cinque, bruciano vivi. Tutt’insieme. Arrivano i pompieri, gli altri pazienti della rianimazione vengono salvati, il reparto evacuato. Ma com’è stato possibile? «Colpa d’un corto circuito», la prima versione. Le analogie col morto di Mosca sono troppe, però. E bastano poche ore perché un funzionario del governo, Aleksej Anikin, l’ammetta: «La causa dell’incidente potrebbe essere il surriscaldamento dei ventilatori polmonari Aventa-m». Proprio loro: i respiratori artificiali che Vladimir Putin, dopo una telefonata in marzo al premier Giuseppe Conte, decise di mandare agli ospedali da campo di Bergamo e di Milano. Quelle 150 apparecchiature che hanno aiutato la Lombardia a superare la prima emergenza e che oggi sono ancora installate, o stoccate, per i pochi pazienti rimasti.
La faccenda è grave e imbarazzante. Lunedì notte il Servizio federale di sorveglianza sanitaria ha sospeso in tutta la Russia l’uso dei ventilatori Aventa-m. Questi respiratori escono dagli stabilimenti d’un produttore degli Urali, la Uralskij Priborostroitelnyi Zavod, controllata dal colosso pubblico Rostec. I sospetti per ora riguarderebbero gli apparecchi costruiti in aprile. Ma il timore è che ci sia un difetto di fabbricazione: «Stiamo effettuando i controlli sulla sicurezza di tutti i dispositivi in dotazione a Mosca e a San Pietroburgo». È per questo che il governo russo non escluderebbe di requisire ogni modello in circolazione. Avvertendo magari altri Paesi, come l’italia, che hanno ricevuto gli Aventa-m e che grazie a questi macchinari hanno fronteggiato l’emergenza delle terapie intensive: al momento, nessuna comunicazione è stata data alle autorità sanitarie in Lombardia. Nell’ospedale da campo del Papa Giovanni XXIII, a Bergamo, i ventinove Aventa-m arrivati dalla Russia sono stati utilizzati fino alla settimana scorsa. Nel reparto costruito alla Fiera di Milano ci sono solo tre pazienti attaccati ai ventilatori: «Ma quelli russi non li stiamo usando — spiega un medico —, ci bastano gli altri che avevamo già».
Bianchi e blu, le istruzioni in cirillico. Trasportati con gran clamore e con 17 cargo atterrati a Milano, a Verona e a Bergamo. Avvitati alle pareti degli ospedali dagli Alpini e dai militari dell’armata rossa, le telecamere a riprendere l’evento. «Testati e collaudati prima che entrassero in funzione», garantiscono fonti della Regione Lombardia. «Apparecchiature d’altissimo livello», è sicuro un rianimatore bergamasco. I 150 Aventa-m spediti all’italia, assieme a un centinaio fra medici, infermieri ed «esperti» russi, sono stati per Mosca una grande operazione di marketing politico (e l’occasione di polemiche, con tanto di minacce ai giornalisti «russofobi»). Una donazione? Uno scambio di favori? Un acquisto? A metà marzo il premier Conte aveva difeso la trattativa, condotta in prima persona: sarebbe «una grande offesa per il sottoscritto e per Putin», era sbottato, il solo pensare a «condizioni» dietro questo «segno d’amicizia».
Nelle scorse settimane, a pagamento, i ventilatori sono stati mandati anche negli Stati Uniti. Ma gli ospedali americani non li hanno mai usati e ora li stanno rispedendo al mittente, con la scusa che «il voltaggio non è compatibile con quello utilizzato negli Usa». Che farà l’italia, adesso? Il console russo a Milano, Alexander Nurizade, giorni fa non escludeva «l’arrivo in Lombardia di nuovi aerei», casomai ce ne fosse ancora bisogno. Un gesto di solidarietà: «Se la casa del vicino va a fuoco — aveva spiegato —, devo correre in suo soccorso». Parole generose. Anche se la metafora del fuoco, oggi, non la ripeterebbe.