Floris e le regole del talk: ospiti sui binari del ragionamento
C ome di consueto, l’appuntamento settimanale dimartedì condotto da Giovanni Floris (La7) era ricco di ospiti: a elencarli tutti si riempirebbe questo breve spazio. Citiamone solo alcuni: Speranza, Bersani (molto comprensivo con il premier Conte), Mieli, Sallusti, Sinaldi, Augias, Cottarelli, Emiliano, i proff. Locatelli e Pregliasco, la spumeggiante Gallavotti e tanti altri.
Si parlava di ripresa economica, di emergenza Covid-19, della non facile situazione che stiamo attraversando. Ma il tema principale che riguarda la trasmissione, almeno dal punto di vista televisivo, è altro: dimartedì funziona meglio con gli applausi o senza? Prima del Coronavirus, gli ospiti di Giovanni Floris erano continuamente gratificati dagli applausi, qualunque cosa dicessero. Avere il pubblico in studio è importante, per il «calore», per la partecipazione diretta, per quel meccanismo fondamentale è che il feedback, l’imperscrutabile onda di ritorno che permette a chi parla di verificare l’efficacia delle sue parole.
Ho sempre pensato che la narrazione di questo talk avesse preso a prestito dalla sitcom l’idea di un pubblico in studio che inevitabilmente porta alle cosiddette «risate in scatola», alla laugh track che sta in sottofondo e che caratterizza il genere in maniera forte. Se il pubblico in studio ride (e dalla regia amplificano la risata), è probabile che il pubblico «vero» sia indotto a ridere. Ma non è così per gli applausi, che qui funzionavano da metronomo, più per scandire i tempi che sollecitare l’approvazione. Però sono applausi.
E chi è invitato a parlare, secondo le regole del talk, cerca l’applauso. Cercare l’applauso vuol dire servirsi di facili slogan, litigare, dare sulla voce, fare i numeri. Tutte cose che in questo frangente non succedono. L’altrieri, la serata è filata sui binari del ragionamento, della discussione civile, persino dell’approfondimento. Meglio con applausi o senza?