«Ero intubata, sognavo casa»: storie di risvegli
Storie di «ritorno alla vita». Donne e uomini. Che raccontano l’esperienza della terapia intensiva. «Ero intubata ma sognavo mio figlio».
Adesso che sembra avere allentato la sua morsa, i risvegli aiutano a capire che cosa è davvero questo male così subdolo. Quali sofferenze impone, a chi lo subisce sul suo corpo. «Stavo per passare di là almeno tre volte. Io non lo sapevo, io ero altrove, ma i medici chiamavano a casa mio marito e gli spiegavano che la situazione era critica, doveva prepararsi al peggio e trovare un modo di dirlo ai miei bambini».
Neppure la raucedine dovuta alle due tracheotomie nasconde un timbro squillante nella voce di Marzia Merlin. Una settimana fa è uscita dall’ospedale dove era entrata il 22 marzo, uno dei peggiori giorni della pandemia. Martedì scorso anche gli ultimi due tamponi hanno dato esito negativo. Finita, o quasi. Sembra impossibile che sia stata così vicina alla morte. «La terza volta è stata l’unica che ho capito. Ero sveglia, si era occlusa la cannula della trachea, non ce la facevo. Mi ha salvato
duna dottoressa, che ha strappato di colpo la tracheo, tutti i macchinari che avevo in gola, e mi ha consentito di respirare con il naso».
In ospedale ci era entrata con le infermiere che la prendevano in giro per l’abbronzatura. Alla fine di gennaio era stata a Cuba con suo marito Domenico, per festeggiare 25 anni di matrimonio. Lei è convinta che sia cominciato tutto ai primi di marzo con il concerto di Elettra Lamborghini al quale aveva accompagnato Daniele, 13 anni, uno dei suoi quattro figli. Si sono ammalati tutti, lei in modo più grave, e quando è finito in ospedale anche Domenico, i vicini si sono occupati di portare da mangiare ai ragazzi, dagli 8 ai 22 anni di età. Ma tutto questo Marzia lo ha saputo dopo. «Del mio tempo sedata ricordo cose vaghe. Continua a venirmi in mente questa sensazione di avere attraversato un viale profumato, con tanti alberi di pesco, una bambina che mi dava la mano, io che mi incamminavo con lei, ma poi mi veniva in mente il pensiero che Alessandro, il mio quarto figlio, ha solo otto anni, e allora dicevo no, aspetta, non posso, e tornavo indietro».
«Risvegli», è un reportage fotografico e giornalistico bello e intenso come può esserlo il racconto di una salvezza conquistata con dolore e fatica. Stefano Schirato e Jenny Pacini, i due autori, hanno avuto le autorizzazioni necessarie a entrare nella terapia intensiva e nel reparto di infettivologia dell’ospedale Santo Spirito di Pescara quando l’italia era ormai ben dentro questo incubo. Erano i giorni delle foto delle bare, delle tante Spoon river, una per ogni categoria di persone decedute, civili, medici, infermieri. Proprio per questo, per i numeri abnormi che ci hanno costretto a rivedere ogni nostra cognizione del lutto collettivo, sostituendo volti e nomi con cifre esponenziali, c’è sempre stata una sorta di pudore nel raccontare le storie di chi invece ce l’ha fatta.
Martedì 24 marzo, il geologo Maurizio Melchiorre pensava di farsi una Tac e di rientrare per cena. Era positivo anche lui, come la moglie Milena e la figlia Paola, che si curavano a casa e stavano abbastanza bene. È stato intubato il 26 marzo, estubato il 29, ma subito reintubato d’urgenza fino all’8 aprile. Durante i 35 giorni di degenza, ha perso 23 chili. Ha capito di aver trascorso più di una settimana tra la vita e la morte solo quando ha riaperto gli occhi. «Stai bene? Stai bene? Le infermiere e i dottori continuavano a chiedermelo. Intorno a
I capelli
Da sedata avevo la sensazione di attraversare un viale profumato
Franco D’agostino saluta medici e infermieri al momento delle dimissioni