I diritti a 20 anni (senza eccessi)
Il ministro Speranza: non vorrei passasse l’idea che le immagini terrificanti delle scorse settimane siano diventate soltanto un ricordo
Ècome una pentola a pressione, devi togliere il coperchio perché non scoppi tutto. Due mesi di detenzione casalinga, e non appena le manette si sono allentate la voglia compressa, inarginabile di movida è esplosa senza limiti, da Nord a Sud, in Europa e in America, dovunque. Come se il ritorno alla vita fosse il ritorno alla bottiglietta di birra, o allo spritz, da consumare attaccati, senza mascherina, assembrati, vocianti.
Come se la costrizione al distanziamento potesse essere ricompensata, appena divelte le sbarre che ci hanno tenuti prigionieri, attraverso il rito liberatorio dell’avvicinamento, tutti insieme, i fiati che si mescolano, i corpi senza distanza, l’aiutino dell’alcol per avvicinarsi ancora di più.
Il ritorno in piazza è avvenuto spontaneamente, come se un tam tam poco udibile da chi ha più di cinquant’anni avesse chiamato a raccolta i giovani di tutte le città. La movida come simbolo di liberazione. L’avvicinamento come cancellazione della paura. All’inizio qualche volante delle forze dell’ordine faceva ancora da deterrente, i nuovi liberati venivano costretti a sciogliere l’assembramento, la sindrome dell’autocertificazione metteva ancora un po’ di timore. Poi, il fiume si è ingrossato, piazze e navigli, dopo mesi di silenzio spettrale, sono di nuovo sommersi dal frastuono di migliaia di giovani guardati con terrore da chi, per mere questioni di anagrafe, vorrebbe dire loro, supplicandoli di tenere le distanze e di indossare le mascherine: guardate che non è ancora finita, staccatevi, non fate richiudere tutto, non dimenticate la grande paura. I sociologi e gli antropologi della contemporaneità devono rivedere ogni volta, e a grande velocità, le loro mappe mentali. Solo alcune settimane fa dicevano che la gente aveva riscoperto la meraviglia dei contatti virtuali, le feste di compleanno a distanza, lo smartphone come sostituto della relazione sociale diretta, la connessione di tutti con tutti, il divano come centro di comando per stare nel mondo anche se separati.
È bastato un segnale, la percezione che il pericolo fosse alle spalle, che la liberazione fosse vicina per ribaltare questo assunto: la voglia di fisicità, di vicinanza, di ritualità sociale, non distanziata, di contatto dei corpi ha ripreso in un battibaleno la sua supremazia, e non ammette freni, cautele, figuriamoci ordinanze e disposizioni. Gli esperti delle task force, gli esperti dei comitati tecnici, esperti in tutto tranne che nella cosa più importante, e cioè nelle dinamiche misteriose ma potentissime della psicologia collettiva, non lo hanno previsto, impegnati a disegnare sofisticate e irrealizzabili linee guida, armati di metri e righelli per calcolare l’esatto distanziamento, per decretare aperture e chiusure, un quarto di chiusure e tre quarti di aperture: non avevano previsto che la spontaneità sociale è più forte e imperiosa di qualunque Dpcm, con tutti i commi e i sottocommi.
Non avevano previsto che non nei luoghi di lavoro, non nei mezzi del trasporto pubblico, si annidava il rischio: ma nelle piazze raggiunte senza che qualcuno convocasse queste masse di giovani per i quali uscire di prigione equivale a stare insieme, il più vicino possibile. Deve essere stata la forza di questo terribile esperimento sociale di cui siamo stati cavie a lasciar immaginare l’aperitivo come una bandiera di libertà. Le persone con una certa età potranno deplorare questo rito. Ma è più interessante capire cosa alimenta questa pratica della movida che in tempi normali può sembrare molesta e assordante, ma che in tempi di Covid appare come
Uffici e trasporti Prima della fine del lockdown gli esperti si erano concentrati solo su uffici e trasporti
una forma di ribellione, un istinto, una pulsione irresistibile. Questo desiderio di aggregazione che strappa mascherina e cancella distanza con una disinvoltura che a noi oramai di età avanzata ci sembra un atto di incoscienza e di irresponsabilità. E anche, a voler essere più severi, un gesto di totale smemoratezza poco rispettosa dei tanti morti che non abbiamo potuto nemmeno piangere con un degno funerale.
E abbiamo paura che tutto questo sia pericoloso. Ma non vogliamo ammettere che il distanziamento fisico coatto, a vent’anni, è un atto contro natura e ora si stanno riprendendo un loro diritto. Lasciando a noi però il diritto di supplicarli: staccatevi un po’ se potete, e quelle mascherine stanno meglio su naso e bocca che sotto il mento. Non è un sacrificio impossibile: reclusi in casa è molto peggio.