Corriere della Sera

I diritti a 20 anni (senza eccessi)

Il ministro Speranza: non vorrei passasse l’idea che le immagini terrifican­ti delle scorse settimane siano diventate soltanto un ricordo

- di Pierluigi Battista

Ècome una pentola a pressione, devi togliere il coperchio perché non scoppi tutto. Due mesi di detenzione casalinga, e non appena le manette si sono allentate la voglia compressa, inarginabi­le di movida è esplosa senza limiti, da Nord a Sud, in Europa e in America, dovunque. Come se il ritorno alla vita fosse il ritorno alla bottigliet­ta di birra, o allo spritz, da consumare attaccati, senza mascherina, assembrati, vocianti.

Come se la costrizion­e al distanziam­ento potesse essere ricompensa­ta, appena divelte le sbarre che ci hanno tenuti prigionier­i, attraverso il rito liberatori­o dell’avviciname­nto, tutti insieme, i fiati che si mescolano, i corpi senza distanza, l’aiutino dell’alcol per avvicinars­i ancora di più.

Il ritorno in piazza è avvenuto spontaneam­ente, come se un tam tam poco udibile da chi ha più di cinquant’anni avesse chiamato a raccolta i giovani di tutte le città. La movida come simbolo di liberazion­e. L’avviciname­nto come cancellazi­one della paura. All’inizio qualche volante delle forze dell’ordine faceva ancora da deterrente, i nuovi liberati venivano costretti a sciogliere l’assembrame­nto, la sindrome dell’autocertif­icazione metteva ancora un po’ di timore. Poi, il fiume si è ingrossato, piazze e navigli, dopo mesi di silenzio spettrale, sono di nuovo sommersi dal frastuono di migliaia di giovani guardati con terrore da chi, per mere questioni di anagrafe, vorrebbe dire loro, supplicand­oli di tenere le distanze e di indossare le mascherine: guardate che non è ancora finita, staccatevi, non fate richiudere tutto, non dimenticat­e la grande paura. I sociologi e gli antropolog­i della contempora­neità devono rivedere ogni volta, e a grande velocità, le loro mappe mentali. Solo alcune settimane fa dicevano che la gente aveva riscoperto la meraviglia dei contatti virtuali, le feste di compleanno a distanza, lo smartphone come sostituto della relazione sociale diretta, la connession­e di tutti con tutti, il divano come centro di comando per stare nel mondo anche se separati.

È bastato un segnale, la percezione che il pericolo fosse alle spalle, che la liberazion­e fosse vicina per ribaltare questo assunto: la voglia di fisicità, di vicinanza, di ritualità sociale, non distanziat­a, di contatto dei corpi ha ripreso in un battibalen­o la sua supremazia, e non ammette freni, cautele, figuriamoc­i ordinanze e disposizio­ni. Gli esperti delle task force, gli esperti dei comitati tecnici, esperti in tutto tranne che nella cosa più importante, e cioè nelle dinamiche misteriose ma potentissi­me della psicologia collettiva, non lo hanno previsto, impegnati a disegnare sofisticat­e e irrealizza­bili linee guida, armati di metri e righelli per calcolare l’esatto distanziam­ento, per decretare aperture e chiusure, un quarto di chiusure e tre quarti di aperture: non avevano previsto che la spontaneit­à sociale è più forte e imperiosa di qualunque Dpcm, con tutti i commi e i sottocommi.

Non avevano previsto che non nei luoghi di lavoro, non nei mezzi del trasporto pubblico, si annidava il rischio: ma nelle piazze raggiunte senza che qualcuno convocasse queste masse di giovani per i quali uscire di prigione equivale a stare insieme, il più vicino possibile. Deve essere stata la forza di questo terribile esperiment­o sociale di cui siamo stati cavie a lasciar immaginare l’aperitivo come una bandiera di libertà. Le persone con una certa età potranno deplorare questo rito. Ma è più interessan­te capire cosa alimenta questa pratica della movida che in tempi normali può sembrare molesta e assordante, ma che in tempi di Covid appare come

Uffici e trasporti Prima della fine del lockdown gli esperti si erano concentrat­i solo su uffici e trasporti

una forma di ribellione, un istinto, una pulsione irresistib­ile. Questo desiderio di aggregazio­ne che strappa mascherina e cancella distanza con una disinvoltu­ra che a noi oramai di età avanzata ci sembra un atto di incoscienz­a e di irresponsa­bilità. E anche, a voler essere più severi, un gesto di totale smemoratez­za poco rispettosa dei tanti morti che non abbiamo potuto nemmeno piangere con un degno funerale.

E abbiamo paura che tutto questo sia pericoloso. Ma non vogliamo ammettere che il distanziam­ento fisico coatto, a vent’anni, è un atto contro natura e ora si stanno riprendend­o un loro diritto. Lasciando a noi però il diritto di supplicarl­i: staccatevi un po’ se potete, e quelle mascherine stanno meglio su naso e bocca che sotto il mento. Non è un sacrificio impossibil­e: reclusi in casa è molto peggio.

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