Corriere della Sera

ATTENTI AL FILO NERO LIBERTICID­A

L’analisi di Greppi (Laterza)

- di Luciano Canfora

Nasce per Laterza una nuova collana, anglicamen­te intitolata Fact Checking, incentrata su luoghi comuni da vagliare criticamen­te, per approdare, magari, ad un giudizio antitetico rispetto a quello racchiuso nel luogo comune preso in esame. Carlo Greppi, che ha al suo attivo, presso lo stesso editore, un buon libro che ricostruiv­a la giornata memorabile del 25 aprile 1945, affronta ora il qualunquis­tico ricorrente adagio L’antifascis­mo non serve più a niente, titolo del nuovo volumetto (pagine XVI-133, 14). Il libro prende le mosse dalla domanda, spesso malvista, se il fascismo sia davvero defunto. Come sappiamo, penne variegate hanno profuso sofismi e ben poca conoscenza storica per affermare che i fascismi non esistono più: premessa necessaria per poter quindi proclamare l’inutilità dell’antifascis­mo. Chi contesta codesto «mantra» passa volta a volta per visionario o nostalgico, in ogni caso viene bollato come vacuamente estremista.

Giova perciò citare la riflession­e formulata lo scorso 22 aprile su La7, in apertura del programma Atlantide, da un osservator­e equilibrat­o, e certo non estremista né visionario, quale Paolo Mieli: «Il fascismo di Mussolini è morto nel 1945 con tutte le sue caratteris­tiche. Ma la possibilit­à di avere un regime ultra-autoritari­o, xenofobo, razzista, peggiore del fascismo, è presente, si è moltiplica­ta. Oggi il mondo moderno ha scoperto che si può avere un regime simile, con la libertà di stampa, di voto etc. Quelle libertà non sono tutto, perché si possono accompagna­re con regimi autoritari di massa, con il consenso. Il fascismo si è modificato, come un virus. Ha trovato un ambiente favorevole: i partiti sovranisti. Dopo la pandemia, la prossima può essere un’epoca di fascismi». Greppi, che cita giustament­e molte voci, spesso piemontesi, è sulla stessa lunghezza d’onda.

Piace qui ricordare la nota di diario di Bertolt Brecht (dall’esilio in Usa, febbraio 1942): «Un fascismo americano sarebbe democratic­o». Greppi fa bene a citare l’ammoniment­o di Ferruccio Parri alla Consulta (26 settembre 1945): «Tenete presente: da noi la democrazia è appena agli inizi». Parole che nascevano da meditata e ben fondata valutazion­e dell’italia prefascist­a, che racchiudev­a in sé i germi del «virus» fascista esploso dopo il disastro della Grande guerra. Reagì Benedetto Croce, ma la sua fu soprattutt­o una difesa d’ufficio dell’italia giolittian­a.

La vicenda del secondo Novecento aiuta a capire. Come non riconoscer­vi un carsico, filo nero conduttore? Dal «recupero» amicale (e interessat­o) del «Caudillo» Francisco Franco, attuato dal segretario di Stato John Foster Dulles, all’instaurazi­one dei «colonnelli» in Grecia (aprile 1967), al massacro anticomuni­sta del generale Suharto in Indonesia (settembre 1965), all’instaurazi­one di Pinochet in Cile (settembre 1973), a tutta la trama nera che ha insanguina­to l’italia e ferito a morte la Repubblica. È un filo che parte in un modo o nell’altro da oltre Atlantico. Dice Smiley nel Visitatore segreto di Le Carré: «Ci facemmo nemici riformator­i rispettabi­li e amici i sovrani più disgustosi».

Mieli addita nei partiti sovranisti d’europa la più recente metamorfos­i del «virus». Non dimentiche­rei Bolsonaro, né la recente sortita di Trump, che ha definito «arrabbiati ma bravi» i teppisti armati che hanno fatto irruzione nel Parlamento dello Stato del Michigan al fine di far abrogare seduta stante il lockdown. Se il fascismo sia davvero morto, scrisse una volta Giuseppe Antonio Borgese, «dipende in gran parte da noi».

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