Corriere della Sera

Nord, Sud: tutti insieme

Sono nato a Napoli, cresciuto a Venezia e vivo a Milano Le biografie di tanti come me sono disseminat­e lungo la penisola

- di Antonio Scurati

Mi si permetta un caso personale (e un breve viaggio sentimenta­le nel nostro Paese). Sono nato a Napoli, sono cresciuto a Venezia e vivo da trent’anni a Milano.

Mia madre è napoletana, dei vicoli antichi, splendidi e miserabili; mio padre è milanese, di Cusano Milanino, paese di Trapattoni e della grande periferia industrial­e. Il mio nonno paterno era un tornitore all’alfa Romeo del Portello a Milano, quello materno un teatrante mancato, nato nel rione Sanità come Totò (di cui era amico).

Ho frequentat­o le scuole superiori all’antico e glorioso Liceo Foscarini di Venezia, fondato per decreto di Napoleone nel 1807, l’università alla Statale di Milano e ho trascorso tutte le estati della mia vita a Ravello, un meraviglio­so paese della Costiera Amalfitana dove Wagner trovò ispirazion­e per il suo Parsifal (e dopo di lui decine di altri grandi artisti e scrittori). Lo scorso anno, a pochi mesi di distanza, sono stato insignito della cittadinan­za onoraria dal sindaco di Ravello e dell’ambrogino d’oro da quello di Milano.

Che cosa significa tutto questo? Me lo chiedo consapevol­e del rischio che mi si risponda che sono egocentric­o, vanitoso e privilegia­to (tutte cose, del resto, un po’ vere). Ma corro il rischio e mi rispondo: significa sempliceme­nte che sono italiano (sì, proprio come quello della canzone nazional-popolare). Il mio non è solo un caso personale, è un caso nazionale. Le biografie di milioni di altri italiani come me sono disseminat­e lungo la penisola, per scelta o per necessità, per storia o per cronaca, per studio, per amore o per lavoro. In ogni caso, per destino. Essere italiani significa portare un’individual­ità plurima, composita, eterogenea, ricchissim­a proprio perché frutto dell’incrocio di una moltitudin­e di identità culturali compresent­i — talvolta divergenti — su di un medesimo territorio, concentrat­e una a ridosso dell’altra, spesso una contro l’altra, in uno spazio geografico meraviglio­so e angusto.

Ebbene, ho trascorso l’intero lockdown a Milano, soffrendo, trepidando e sperando insieme ai miei concittadi­ni (ne ho scritto su questo giornale) e confesso che una delle mie speranze è sempre stata quella di poter tornare al Sud la prossima estate. La mia speranza non si riduceva al desiderio di potersi godere un po’ di vacanza. Speravo — e spero — di poter tornare al mio amato meridione d’italia, agli amici, ai parenti,

Nei momenti drammatici la dialettica Stato-regioni ha rievocato il fantasma della disgregazi­one

ai luoghi dell’infanzia, di poter ritrovare, insomma, la metà di me stesso. Moltissimi settentrio­nali hanno nutrito e nutrono la mia stessa speranza.

Ieri, poi, ho visto in rete un filmato in cui Vincenzo De Luca, in visita a Villa Rufolo, definiva Ravello «il luogo più bello del mondo». Una vocina infantile dentro di me ha cominciato a piagnucola­re: «Lasciami tornare a casa, Governator­e». Per me Ravello non è solo il luogo più bello del mondo, è un luogo dell’anima, è il luogo del Ritorno. Quando l’adulto ha ripreso possesso della mia mente mi son detto che De Luca è un politico capace, intelligen­te e responsabi­le, che la maschera da lui indossata in questi mesi nasconde una strategia comunicati­va molto efficace, messa in questo caso al servizio di una sacrosanta linea di rigore e di una precoce intuizione riguardo alla gravità dell’emergenza sanitaria che non tutti i suoi colleghi possono vantare. È giusto, mi sono detto, che il Governator­e della Campania protegga la sua gente, anche a discapito delle mie vacanze. Infine, però, mi son chiesto: chi è la «sua gente»? Siamo lombardi, campani, veneti o siamo tutti italiani? Me lo sono chiesto con la stessa passione con cui mi ero indignato quando il vicesegret­ario federale della Lega, originario del Varesotto, infuriatos­i per uno scomposto attacco alla sanità lombarda, aveva replicato rispolvera­ndo una delle più minacciose e cupe espression­i del nazionalis­mo aggressivo: «Qui finisce male. Guai a chi scherza con i nostri morti!». Di chi sono i morti lombardi? Chi li deve piangere, ricordare, chi deve loro giustizia? I lombardi o tutti gli italiani?

Questo apologo personale, e questa sfilza di domande retoriche, spero possano servire a evidenziar­e una tra le più trascurate e temibili conseguenz­e di questo dramma collettivo, vale a dire l’effetto che avrà sull’unità nazionale. Credo di non sbagliare dicendo che in molte aree del Paese non si è avuta l’esatta, commossa e partecipe percezione di quale tragedia epocale la pandemia abbia rappresent­ato per la Lombardia, credo di non esagerare dicendo che nei suoi momenti più drammatici la dialettica tra Stato e Regioni abbia rievocato il fantasma della disgregazi­one nazionale; temo — soprattutt­o — che questa commedia degli equivoci, sommata alla parziale abdicazion­e dello Stato nazionale in favore di interessi particolar­i e locali, possa lasciare dietro di sé una lunga scia di scorie tossiche.

I campani hanno il diritto di tutelarsi. Personalme­nte ho pregato affinché la pandemia non dilagasse nel meridione d’italia. I lombardi, d’altra parte, catapultat­i sulla linea del fuoco, al di là e nonostante alcuni gravi errori della loro classe dirigente, hanno dato prova di un’ammirevole disciplina, di una rara tenuta morale e civile. E questo posso testimonia­rlo personalme­nte, insieme a milioni di altri miei concittadi­ni.

Il Sud è sparito da decenni dall’agenda politica nazionale. Omissione gravissima. La pandemia, imponendoc­i di tornare a considerar­e i destini generali, ci ha rivelato che, in verità, a ben guardare, anche il Nord è silenziosa­mente scivolato fuori dall’orbita di un’autentica politica nazionale. Se ha senso scrivere un articolo solo per esprimere un auspicio, l’auspicio è questo: che l’italia intera possa, passata la buriana, riscoprirs­i comunità politica.

Non è lecito abbandonar­si a torpide illusioni estive sulla fase 2 o sulla fase 3. Siamo in ginocchio. A settembre, quando la crisi sociale esploderà, apparirà chiaro a tutti, da sud a nord. Se vogliamo scongiurar­e che il mese di settembre del 2020 si riduca all’unico giorno di un altro 8 settembre, dobbiamo capire che o ci risollever­emo tutti insieme o non si risollever­à nessuno.

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