Spari e morti nelle città Usa Soldati pronti
Scontri ovunque, due morti. Trump ai sindaci: «Siate più duri». Pronto l’esercito
Divampa la protesta dopo l’uccisione, a Minneapolis, dell’afroamericano George Floyd, per mano di un poliziotto. Trump: cani contro i dimostranti.
La East Lake Street non è più un’anonima e rassicurante strada commerciale, con le sue banche, il supermarket e le catene di fast food. Sembra, invece, una lunga cicatrice scura, il segno lasciato da una scudisciata crudele. Il Terzo Distretto di Polizia è meta di un surreale pellegrinaggio. Molte persone, di tutte le età, superano il cancello divelto, si appoggiano ai muri bruciacchiati ed entrano a contemplare il risultato della «prima notte di Minneapolis», tra martedì e mercoledì scorsi, quando la polizia lasciò campo libero ai piromani.
Il governatore del Minnesota, il democratico Tim Walz è certo: «Quello che sta accadendo a Minneapolis non ha più niente a che vedere con le proteste per la morte di George Floyd». Il governatore, il Dipartimento di Polizia sostengono di avere le prove che «l’80% dei violenti viene da fuori». Ci sarebbero forze, agitatori organizzati con piani e obiettivi che non hanno nulla a che fare con l’indignazione per gli ultimi otto minuti nella vita di George, schiacciato sotto il ginocchio e i 90 chili di Derek Chauvin, ex poliziotto ora in galera con l’accusa di omicidio colposo. La famiglia ha chiesto un’autopsia indipendente, perché non è soddisfatta del referto medico che non stabilisce una correlazione diretta tra l’azione violenta di Chauvin e la morte per asfissia.
Tra i manifestanti, aggiungono le autorità, «si sono infiltrati gruppi di suprematisti bianchi».
Ieri mattina Minneapolis emerge a fatica da un’altra nottata di fiamme. Ed esattamente come aveva fatto il giorno prima, il governatore Walz si getta all’inseguimento di uno scenario che finora non è riuscito a controllare. Non è servito a nulla il coprifuoco imposto dalle 20 alle 6 di mattina. E i militari della Guardia Nazionale che avevano preso posizione nel pomeriggio, si sono defilati non appena è calato il buio. Hanno osservato da lontano altre distruzioni, altri incendi.
Adesso Walz rilancia e mobilita la Guardia Nazionale «a pieno organico»: praticamente in assetto da guerra. Il governatore è nella posizione più scomoda che si possa immaginare. Le pressioni sono tremende. Il Pentagono ha fatto sapere di essere pronto a mandare l’esercito e squadre specializzate nella guerriglia urbana. Minneapolis come Bagdad, scrivono molti giornali. Forse un’esagerazione, anche se colpisce vedere i blindati presidiare gli incroci, con i soldati in tuta mimetica. Il vero problema, se mai, è che in tante altre metropoli americane la tensione si sta avvicinando a quella di Minneapolis. L’altra notte a New York diversi feriti tra manifestanti e agenti. A Brooklyn un uomo è stato arrestato per tentato omicidio dopo aver lanciato una bottiglia molotov contro una pattuglia della polizia. Ad Atlanta ore di micro guerriglia e un paio di macchine incendiate davanti alla sede della Cnn.e poi Dallas, Philadelphia, Los Angeles, Phoenix, Denver. Praticamente proteste ovunque.
A Washington, Donald Trump ha commentato i disordini dell’altra sera davanti alla Casa Bianca. Diverse centinaia di giovani hanno impegnato per qualche ora i servizi segreti schierati a protezione della residenza presidenziale. «Se avessero superato il recinto — ha twittato Trump — avrebbero trovato cani feroci e armi micidiali ad accoglierli». A sindaci e governatori: «Siate più duri».
Tuttavia, viste dal campo le cose non stanno esattamente come le descrive il governatore Walz. È vero che la stragrande maggioranza dei dimostranti, qui a Minneapolis, come altrove, continua a riversarsi per le strade spontaneamente, con i cartelli disegnati a casa con i pennarelli. Spinti dalla rabbia, dalla frustrazione. Si raccolgono con i social, le chat oppure semplicemente con il passaparola all’antica, come ci raccontava l’altra sera Brenda, una giovanissima afroamericana che ha guidato almeno un centinaio di coetanei nei cortei di Washington.
Le marce, i sit-in sono onde increspate, imprevedibili. C’è chi si limita a gridare gli slogan. «No justice, no peace», il più ricorrente. Ma molti ragazzi e ragazze si spingono fino al limite della provocazione. Premono sui cordoni degli agenti. Agitano il dito medio a dieci centimetri dalle visiere, dagli scudi. Fanno vibrare le transenne, le strappano dalle mani dei poliziotti. Li sfidano a usare lo spray urticante. Rispondono lanciando gavettoni.
Nella prima linea, però, ci sono anche altre figure più inquietanti. Piccole frange di afroamericani, vestiti di nero, in passamontagna. Aggressivi con tutti. Alcuni impugnano mazze rudimentali. Altri bottiglie molotov o petardi molto potenti. Chi sono? Sono «gli agitatori» di cui parla il governatore Walz? Ma allora non ci sono solo «i suprematisti bianchi».
E chi sono, invece, gli assassini che sparano dalle auto in corsa? Ieri hanno fatto due vittime. A Detroit un giovane di 21 anni è stato colpito da colpi di pistola esplosi da sconosciuti a bordo di un Suv con i finestrini schermati. A Oakland, in California, qualcuno ha sparato da una macchina in velocità contro due agenti federali, di guardia all’edificio del Dipartimento della Sicurezza interna. Uno è morto, l’altro è ferito gravemente.