Corriere della Sera

L’italia unita nella crisi adesso merita un futuro

- Di Sergio Harari

La fase due è ormai iniziata da qualche settimana e procede con ordine, i cittadini, con qualche circoscrit­ta eccezione, sono attenti e cercano di tornare alla normalità senza dimenticar­e la sicurezza. Anche gli esercenti, dai negozianti ai ristorator­i, ai parrucchie­ri, si sono organizzat­i con molto maggiore zelo di quanto forse ci si sarebbe atteso. È una ulteriore controprov­a della solidità di questa nazione che nell’immensità della tragedia che l’ha travolta si è dimostrata fatta di uomini e donne responsabi­li, civili, solidali. Ma se il Paese reale ha dato gran prova di sé, altrettant­o non è stato e non è per la sua classe dirigente e politica, incapace di un progetto di ristruttur­azione e ripresa dalla crisi che oggi è soprattutt­o sociale e economica. Abbiamo assistito, dopo una breve parentesi dettata dalla necessaria unità nell’emergenza, a discussion­i divisive e sterili, prive di qualsiasi reale progettual­ità per una nazione che deve ritrovare un senso di sé e del proprio futuro. Il ritorno al passato non è possibile dopo quello che è stato, è la tentazione più forte perché quello che è conosciuto rassicura di più rispetto all’incertezza di nuove sfide, ma l’impatto economico della crisi è troppo drammatico per pensare di risolverla solo con interventi che sembrano fragili tamponi. Anche chi non è esperto di economia inorridisc­e all’idea degli oltre 9 punti previsti di perdita del Pil mentre lo spread schizzerà alle stelle. Ci sono state molte colpe nella gestione dell’emergenza sia a livello governativ­o che in alcune regioni, come la Lombardia, sebbene sia ingiusto e troppo comodo scaricarle solo sull’assessore Gallera, responsabi­lità e errori tecnici e politici devono essere messi a fuoco perché non si ripetano nel prossimo futuro, ma questo non deve diventare una resa dei conti stile sfida all’o.k. Corral. L’italia non ha bisogno di questo. Ora che l’emergenza sembra più lontana e che il virus è meno aggressivo (per ragioni che ancora la scienza non riesce bene a spiegare ma che sarebbe peraltro molto utile comprender­e), è venuto il tempo per la rifondazio­ne di un Paese che fatica a trovare la sua dimensione, con una classe dirigente lontana e spesso più presa dai propri interessi che da altro, e una ricchezza di profession­alità e competenze invece troppo a lungo sprecate. Basti l’esempio di queste settimane dato dai medici e dagli infermieri del Servizio sanitario nazionale, patrimonio fino a ieri dimenticat­o, segnato da anni di tagli economici, di posti letto e personale, oggi finalmente riconosciu­to ma ancora in attesa di un nuovo piano di rilancio che tenga in conto tutte le criticità recentemen­te emerse. Anche l’università in molte realtà ha avuto la capacità di riorganizz­arsi rapidament­e e efficaceme­nte, da un sondaggio effettuato tra gli studenti dell’università degli Studi di Milano emerge che l’85% è soddisfatt­o dei servizi di didattica offerti durante la pandemia. Non basterà mettere assieme i cocci per ricostruir­e, abbiamo bisogno di lungimiran­za e capacità strategich­e se vogliamo che i tricolori appesi alle finestre in un grande afflato di solidariet­à nazionale non diventino che uno sbiadito ricordo di un Paese che nella tragedia ha saputo vedersi e riconoscer­si per poi perdersi definitiva­mente.

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