Perché serve un disegno di strategia industriale
La discussione che si era sviluppata, prima del decreto legge Rilancio, sull’ipotesi di un ritorno dello Stato imprenditore, alla quale avevano partecipato anche esponenti del governo e il vertice di Confindustria, lasciava pensare che fossimo prossimi a un momento di svolta. Ma siamo davvero davanti a un ridisegno consapevole dei confini tra Stato e mercato? Al pari di tre precedenti momenti storici abbiamo una gravissima crisi economica e un sistema produttivo in ginocchio, ancora una volta ne va della permanenza dell’italia nel novero dei Paesi avanzati. Negli anni 30, Mussolini fece ricorso ad Alberto Beneduce per salvare al contempo il sistema bancario e l’apparato industriale, creando l’iri. Fu una scelta intelligente e segnò la ripresa economica del Paese. Erano assenti allora nel settore privato imprenditori in grado di risanare e di rilanciare decine di imprese importanti. Si creò un soggetto pubblico con una visione di lungo termine. Nell’immediato dopoguerra fu Alcide De Gasperi che, con un approccio a-ideologico, decise di non smembrare l’iri, anche se gli anglo-americani e lo stesso Togliatti chiedevano, per ragioni diverse, di restituire al mercato le aziende raccolte sotto le partecipazioni statali. Fu una decisione anche quella dallo sguardo lungo che garantì al Paese una fase di sviluppo. Per circa quindici anni le Partecipazioni Statali assicurarono all’italia investimenti essenziali in molti settori strategici: acciaio, petrolio, infrastrutture, trasporti, telecomunicazioni, cantieristica, automobili, difesa. Nel 1992, in un nuovo momento di emergenza, fu Giuliano Amato a ridisegnare, in senso contrario, il perimetro della presenza pubblica avviando la stagione delle privatizzazioni. In questo caso le intenzioni dichiarate erano quelle di rafforzare il sistema produttivo facendo nascere nuove grandi aziende private. Sappiamo che non è poi andata così. Le privatizzazioni hanno generato un gettito significativo per i conti pubblici, più elevato di quello raccolto dalla Lady di Ferro nel Regno Unito ma non hanno condotto a un rafforzamento del sistema produttivo. La vicenda di Telecom Italia ne è stata il caso esemplare. La privatizzazione ha portato alla simultanea perdita del primo e più innovativo operatore privato, Omnitel, venduto agli stranieri e alle ripetute operazioni finanziarie su Telecom, con il risultato che oggi Tim non è di fatto né un’azienda italiana né dinamica, né in grado di competere ad armi pari con i rivali semi pubblici francesi o tedeschi. Col senno di poi le privatizzazioni avrebbero dovuto seguire una strada diversa. Fu forse la fretta di far cassa che impose scelte confuse che poi portarono a cessioni prive di un disegno di rafforzamento del nostro sistema produttivo. Non basta avere un sistema produttivo in grave difficoltà per essere certi che la politica sappia ridefinire i confini dell’economia mista. Questo è un fatto. Serve un progetto di medio termine e per poterlo delineare si deve avere un’idea abbastanza chiara degli scenari che si aprono. Oggi, ancora nel pieno dell’emergenza, non è affatto chiaro cosa accadrà. Che ne sarà innanzitutto della globalizzazione; che accadrà ai modelli di consumo delle famiglie, e che accadrà dell’«effetto Greta» sull’economia sostenibile? Non basta neanche fare affidamento sul pendolo della storia. Dopo le liberalizzazioni, dopo le privatizzazioni si torna a una maggiore presenza pubblica, come se fosse una legge di natura. Il vero limite del decreto Rilancio è di non avere un chiaro disegno di strategia industriale. Non si fanno scelte, si risarciscono tutti, si usa una panoplia di strumenti ma nei fatti si perpetua lo stato ex ante. Un Fondo per le Pmi, una Cdp per le grandi, un po’ di tagli temporanei a questa o a quella tassa, qualche aiuto a fondo perduto senza aver avuto il coraggio mostrato da chi fece, con risultati alterni, le tre scelte storiche citate.
Gli scenari
Serve un progetto di medio termine e per poterlo delineare si deve avere un’idea chiara degli scenari