L’AMERICA SENZA LEADER
In cielo l’america bianca della tecnologia e dei «capitani coraggiosi» dell’industria che si riprende la leadership dello Spazio. In terra l’america del tessuto sociale che, logorato dalle disuguaglianze sempre più estreme, dalla politica polarizzata trasformata in guerra di trincea fra tribù e dall’irrisolta questione razziale, si strappa all’improvviso.
Il contrasto tra le immagini serene della capsula Dragon che raggiunge la Stazione spaziale internazionale e quelle delle decine di città americane in fiamme è la metafora, banale ma perfetta, dell’america di oggi: economicamente dinamica e trionfante nell’innovazione, ma incapace di frenare meccanismi di distribuzione della ricchezza e delle opportunità sempre più estremi che lasciano gran parte del Paese senza speranze per il futuro. 2016: la rabbia dei bianchi impoveriti consegna il potere a un presidente nazionalpopulista. 2020: a far scoppiare la rabbia dei neri sono tre uccisioni per brutalità della polizia che rischiavano di restare impunite, ma dietro c’è il coronavirus coi 40 milioni di posti di lavoro persi e gli oltre centomila morti. Il conto lo pagano soprattutto i più deboli: se il Covid avesse colpito nella stessa misura bianchi e gente di colore oggi ci sarebbero 13 mila afroamericani vivi in più.
Per anni abbiamo scritto di fine del sogno americano e dei rischi connessi al blocco degli ascensori sociali. Sembravano formule sociologiche. Ora acquistano una tragica concretezza. E nessuno sa cosa fare. In passato le tensioni razziali sono state lenite da leader credibili e carismatici che riuscivano a incanalare la protesta in movimenti come quelli per i diritti civili. Oggi è tutto enormemente più complicato per vari motivi: non ci sono più grandi capi carismatici e le personalità che hanno ancora un patrimonio di credibilità (dov’è Obama?) faticano a spenderlo con gente delusa da decenni di promesse mancate. Né ci sono più i grandi movimenti capaci di incanalare la protesta nell’era digitale della frammentazione e della moltiplicazione di gruppi estremisti dalle origini più o meno trasparenti, registi di guerriglie urbane talmente diffuse da rendere difficile distinguere tra proteste spontanee e cellule insurrezionali organizzate. Calmare gli animi, in queste condizioni, è molto difficile. Donald Trump non ci prova nemmeno. Anzi preferisce giocare coi fiammiferi: avverte i dimostranti che se cercheranno di raggiungere la Casa Bianca verranno sbranati da cani feroci, invita la polizia di Minneapolis a sparare contro i saccheggiatori e, quando il sindaco cerca di evitare scontri cruenti, gli rivolge uno sprezzante «non somigli al generale Macarthur né al generale Patton». Come sempre un leader che per gli afroamericani è l’incarnazione della reazione dei bianchi d’america alla presidenza Obama, cerca lo scontro, fedele a un Dna che preferisce il conflitto al dialogo. Lo ha fatto anche con un tweet che sembra chiamare i suoi Maga people a contrastare le manifestazioni della sinistra ribelle, gli antifa, davanti alla Casa Bianca. Arriveremo ai carri armati? Per adesso i numeri dicono che già in almeno 13 Stati la politica ha lasciato il passo alla Guardia Nazionale.