LE ACCUSE DI GIUSTIZIALISMO CHE ROVESCIANO LA VERITÀ
C aro direttore, Pier Camillo Davigo, il «dottor sottile» di Mani pulite, ora componente del Csm, è spesso chiamato ad intervenire su problemi della giustizia. Le sue posizioni, sempre argomentate, sono esposte con linguaggio non felpato (bandito il «giuridichese») e spesso urticante, perciò temuto da chi preferisce le cortine fumogene. Dissentire anche con vigore è ben possibile. Ma dopo il suo intervento a «Piazza pulita» del 28 maggio si è andati oltre. Il florilegio di dichiarazioni di politici e avvocati offerto da Virginia Piccolillo (Corriere, 30 maggio) è esemplarmente indicativo: fa paura, la sua non è civiltà; butta a mare secoli di cultura giuridica; fa tremare i polsi; è l’anticamera della giustizia del popolo o fai da te; disprezza l’art. 27 della Costituzione; è la conferma dell’impazzimento giustizialista.
La «colpa» di Davigo? Aver utilizzato ( forse per la ventesima volta, senza mai reazioni men che divertite) l’apologo di chi invita qualcuno a cena e lo becca mentre si mette in tasca le posate d‘argento. Sostiene Davigo: questo a casa mia io non lo invito più, non ho bisogno di aspettare che lo condannino in Cassazione. È del tutto evidente che si parla semplicemente di «questione morale». Che parte dalla contaminazione fra istituzioni e mondo affaristico-economico e può sfociare in varie forme di condotte riprovevoli o illegali (dalla corruzione alle collusioni con la mafia) e nel clientelismo, oggi — col caso Palamara — squadernato pure in magistratura.
Facciamo un passo indietro. Mani pulite e le inchieste
su mafia e politica segnarono un forte recupero di legalità. E rispolverarono la questione morale, fin lì relegata in soffitta. Nel senso che le inchieste rivelarono anche responsabilità sul piano politico e morale che altrimenti (senza il disvelamento giudiziario) nessuno avrebbe mai neanche pensato di far valere. Poi però ebbero il sopravvento l’indifferenza o l’ostilità verso chi dall’interno dello Stato cercava di garantire la legalità. Di qui gli attacchi — tra l’altro — alle pretese invasioni di campo dei giudici.
dConfronto
Il linguaggio non felpato di Davigo è temuto da chi preferisce le cortine fumogene
Con esiti perversi, perché mettere sotto accusa i magistrati, invece dei corrotti e collusi, comporta per costoro una minore fatica nel ricostruire le fortificazioni sbrecciate dalle inchieste. Esemplare, in questo percorso, è stato l’uso cinico del termine «giustizialismo». Parola un tempo letteralmente sconosciuta nel lessico giudiziario; poi introdottavi callidamente con la precisa finalità mediatica di fondare il dibattito su una sorta di verità rovesciata, dove fare giustizia senza privilegi per nessuno sarebbe appunto giustizialismo. Tesi applicata con la stessa intensità dei tackle da «rosso» immediato delle partite di calcio, seguendo il canone della propaganda ingannevole che con la ripetizione assillante alla fine sembrano veri anche i falsi grossolani. Ma se la «questione» diventano i magistrati più esposti e scomodi, è evidente che se ne avvantaggia chi prospera con la corruzione o tresca coi mafiosi, potendo contare su più spazio per riproporre le pratiche di sempre, grazie anche alla questione morale nuovamente retrocessa ad inutile ferrovecchio.
Una tendenza, pericolosa per la qualità della nostra democrazia, che rischia di riproporsi con gli attacchi contro Davigo, scelto come bersaglio anche nella logica di «parlare a nuora perché suocera intenda». Dove suocera è la magistratura tutta, che in questa fase di crisi profonda deve scrollarsi di dosso le incongruenze e le scorie che la sfigurano. Altrimenti coloro che negano persino la possibilità di introdurre il tema della responsabilità morale a fronte di un furto flagrante di posate, avranno buon gioco per attaccare l’esercizio indipendente della giurisdizione.