UNA POLITICA PRIVA DI ORRORE DEL VUOTO
La questione l’ha posta più nettamente di tutti, seppure nella forma di una domanda retorica, Graziano Delrio sul Corriere: «In questo periodo è stata lanciata un’idea che sottendesse una visione? Un’idea che facesse anche solo discutere, nel bene e nel male, ma che aprisse un dibattito, una polemica, un confronto?». No, nessuno l’ha lanciata. Colpisce, nel nostro tempo sospeso, la miseria di quello che una volta veniva chiamato, un po’ pomposamente, il dibattito pubblico. Non è una novità, purtroppo. Mai come in questi mesi, però, alla faccia del mantra «Nulla sarà come prima», abbiamo vissuto in una prolungata astinenza da idee, proposte, progetti. Ci si accapiglia senza costrutto sulla destinazione delle risorse erogate a pioggia per cercare di lenire gli effetti devastanti della crisi, sulle mascherine, sulle ronde. Ma del domani, invece, sembra che nessuno voglia, o sappia, discutere seriamente. Tutta colpa di una politica, di governo e di opposizione, vocazionalmente disinteressata a gettare uno sguardo sul futuro? Naturalmente no, anche la cosiddetta società civile sembra avere solo poche idee, ma confuse. È la politica però che dovrebbe avvertire, più e prima di tutti i suoi interlocutori, l’orrore del vuoto. Se non lo prova, il pericolo (civile, economico, sociale e, quel che è peggio, democratico) minaccia di farsi esplosivo.
I raffronti con il passato servono fino a un certo punto, anche perché mai era capitato di dover fare i conti con un nemico invisibile che (complice pure la paura lasciata dilagare per due e mesi e passa, in nome dell’emergenza, tra gli italiani ridotti in uno stato di semi-cattività) minaccia di rendere ciascuno ostile ai propri simili, anche perché persino il più apparentemente inoffensivo tra questi potrebbe contagiarlo. Vero. Però bisogna pur dire, anche se siamo diventati tutti smemorati, o forse proprio per questo, che non è stato sempre così; e che non è certo solo per via del Covid-19 che siamo messi così male. Molti hanno rievocato il tempo della ricostruzione, quando feroci contrapposizioni ideologiche e di classe non impedirono uno slancio comune per rimettere in piedi un Paese devastato dalla guerra: senza classi dirigenti politiche, non avremmo avuto né la democrazia né, con tutte le sue distorsioni, il miracolo economico. E, quando questo mostrò la corda, furono ancora classi dirigenti politiche colte a cercare di governare il cambiamento conducendo, assieme, una lotta politica e una battaglia culturale. Il primo centro-sinistra «organico» venne alla luce (correva l’anno 1963) al termine di una lunghissima, complicata e persino perigliosa gestazione politica, certo. Ma anche, eccome, sulla base di un confronto intellettuale e, perché no, ideologico sui grandi mutamenti intervenuti nel Paese e sulle strade possibili per dare loro uno sbocco, che appassionò, attraversò e divise i partiti e l’opinione pubblica: basti pensare alla nazionalizzazione dell’energia elettrica e, più in generale, al ruolo dello Stato nell’economia, o alla riforma della scuola media inferiore, che non abolì solo lo studio del latino, ma pure una feroce discriminazione di classe, che divideva a dieci anni i ragazzini tra chi doveva accontentarsi di saper leggere, scrivere e far di conto e chi invece già sapeva che avrebbe potuto proseguire gli studi sino alla laurea. E tutto questo non si lascia spiegare se non si tengono in conto anche le discussioni appassionate del convegno democristiano di San Pellegrino (relatori Achille Ardigò e Pasquale Saraceno), di quello liberal socialista promosso da sei riviste «d’area» al teatro Eliseo di Roma, e anche di quello dell’istituto Gramsci sulle tendenze del capitalismo italiano, dove per la prima volta si intravidero, nelle due relazioni contrapposte di Bruno Trentin e di Giorgio Amendola, le divisioni tra la sinistra e la destra del Pci che si sarebbero manifestate apertamente negli anni successivi.
Progetti e speranze riformatrici si erano illanguiditi da un pezzo quando il Sessantotto degli studenti prima, e più ancora, poi, l’autunno operaio del 1969 squassarono il telaio della società italiana e archiviarono, di fatto, il centro-sinistra. Al cui interno, però, presero corpo tentativi importanti, avrebbe detto Aldo Moro, di intelligenza degli avvenimenti, che appassionarono, e divisero, l’opinione pubblica. Nei giorni scorsi è passato (quasi) sotto silenzio il cinquantesimo anniversario dello Statuto dei diritti dei lavoratori, voluto da Giacomo Brodolini, ministro socialista del Lavoro, e da Carlo Donat Cattin, che gli succedette alla sua morte, ed elaborato da un nutrito gruppo di giuslavoristi di matrice cattolica e socialista, primo tra tutti Gino Giugni. Peccato. Chi ne vorrà leggere i discorsi in piazza e in Parlamento (il Foglio ne ha pubblicati alcuni, rimarcando in una nota redazionale la differenza che intercorre tra un discorso e un tweet), rimarrà colpito, qualsiasi cosa pensi dello Statuto, dalla tensione intellettuale e civile e dalla cultura storica e politica che li animano e, insieme, dalla profonda conoscenza della realtà di cui sono intrisi.
Erano, se non proprio gli ultimi, i penultimi fuochi. Di lì a non molto, il 2 dicembre 1974, Moro, presentando il suo quarto governo, constatò amaramente: «Non è solo debole e intermittente la nostra economia, ma è discontinua, nel suo stesso impetuoso fiorire, la nostra vita sociale, ed è stanca la vita politica, sintesi inadeguata e talvolta persino impotente dell’insieme economico e sociale». Nuovi e cangianti soggetti fieri di non avere una storia, una tradizione e una cultura alle spalle, o fieramente dimentichi di averla, hanno preso ormai da un pezzo il posto dei vecchi partiti, con la loro storia, la loro tradizione e la loro cultura. Ma questa fotografia dell’italia di 46 anni fa somiglia a un’istantanea dell’italia che oggi non ha idea di come riprendere il cammino. E, a differenza di quella, non ha nemmeno troppa voglia di discuterci su.