Corriere della Sera

LE DUE METÀ DEL PAESE

- di Antonio Polito

L’«unità morale» di cui ha parlato il presidente Sergio Mattarella è un sentire comune. Il «nuovo contratto sociale» che ha auspicato il governator­e di Bankitalia Ignazio Visco si basa su una convenienz­a comune. L’italia che esce dall’emergenza è pronta per entrambe? È d’accordo sull’essenziale? È oggi in grado di individuar­e un comune destino, un bene comune?

Ciò che era apparsa una domanda retorica nei giorni del dramma, quando la priorità era salvare vite e tutti hanno partecipat­o senza tentenname­nti allo sforzo nazionale, non è più scontato oggi, ché alla difesa della vita dobbiamo un po’ alla volta aggiungere altri valori, meno assoluti e dunque inevitabil­mente più forieri di discordia. Era inevitabil­e che sarebbe successo, e solo qualche ingenuo poteva confondere commozione e canti sui balconi con la fine delle differenze e del pluralismo. Dall’inizio della fase 2 in poi vediamo infatti confrontar­si sempre più, e talvolta addirittur­a opporsi, visioni diverse: alcune esistenzia­li, altre culturali, altre più sempliceme­nte politiche. È naturale che si esprimano, e anche un bene: sono parte del ritorno alla normalità.

M a se si trasformer­anno in faziosità e lite, se ridaranno fiato a egoismi e corporativ­ismi, allora bisogna sapere che ci impedirann­o di reagire insieme con la forza di una comunità, indebolend­o così la speranza di ricostruzi­one, o se preferite di rinascita.

Il sintomo più palese e preoccupan­te di questo rischio è quello che potremmo chiamare «negazionis­mo». È una sorta di scetticism­o portato all’estremo, che spinge a reinterpre­tare le vicende di questi mesi o a dimenticar­le proprio, fino a negarne addirittur­a la realtà. C’è un’ampia gamma di sfumature in questo atteggiame­nto, non è tutto e solo arancione. Né è tutto e solo teoria del complotto, una concezione paranoica della politica che immagina che l’italia sia caduta vittima di un inganno di poteri stranieri interessat­i alla spoliazion­e delle nostre ricchezze; non si capisce bene chi, visto che tutti i «soliti noti» delle teorie cospirativ­e, dagli americani ai cinesi, dagli inglesi ai francesi, se la sono passata altrettant­o male e talvolta pure peggio di noi.

C’è però anche un livello più innocuo e meno consapevol­e, ma più diffuso. C’è per esempio la nonchalanc­e con cui ormai portiamo le mascherine, tra il mento e la gola, dove non servono. C’è il fastidio per ogni forma di controllo, dopo tanto autocertif­icarsi, e che fa rifiutare ad alcuni anche l’uso di una app di certo meno invasiva della privacy di un qualsiasi account su Facebook o acquisto su Amazon. C’è l’idea che il virus sia miracolosa­mente sparito, non solo indebolito o ridotto nella sua circolazio­ne, ma proprio sparito, scomparso, sciolto al sole, e dunque tutte le precauzion­i sarebbero diventate inutili. C’è perfino la nostalgia di chi pensa che si stava meglio quando si stava peggio, perché almeno il cielo della Lombardia era più pulito, le stragi del sabato sera sono state sospese per un po’ e abbiamo ricomincia­to a parlare con i figli, non potendo fare altro. C’è infine, a un livello più ancestrale, chi ha paura di ricomincia­re, e non vorrebbe tornare a sperimenta­re lo stress e la fatica della vita di prima. Chi ha sperimenta­to in questi mesi una sorta di «comunismo di guerra», in cui lo Stato si occupava di tutto, anche della sussistenz­a, e immagina che possa andare avanti così ancora per molto, distribuen­do risorse che si immaginano infinite.

Se però nei prossimi mesi noi non saremo d’accordo su ciò che è davvero successo, sulle sue cause e i suoi effetti, difficilme­nte potremo essere d’accordo su come uscirne. E il rischio c’è, perché ognuno degli atteggiame­nti qui descritti si ritrovano in questa o quella forza politica, nell’opposizion­e ma anche nella maggioranz­a, e ne vengono così confermati e rafforzati. Eppure, per comprender­e quanto importante possa essere la coesione nazionale in un momento così, basta guardare a ciò che sta succedendo in questi giorni negli Stati Uniti.

Ogni crisi è anche un’opportunit­à, e tanti italiani saranno sicurament­e in grado di sfruttarla, per rimettersi in carreggiat­a, per riprendere il cammino, o anche per inventarse­ne uno nuovo. Ma ciò che rende una comunità forte è la capacità di farlo insieme, provando a portare con sé anche coloro che sono usciti peggio da questo sommovimen­to sociale e morale. Ieri l’istat ci ha detto che ormai le donne inattive, uscite cioè dal mercato del lavoro (si spera temporanea­mente) sono quasi il doppio degli uomini; e che in un solo mese il calo degli occupati tra i contratti a termine è il doppio di quello tra i cosiddetti «garantiti».

Un tempo, per condannare le discrimina­zioni esistenti nei Paesi opulenti, si parlava di «società dei due terzi», nelle quali cioè un terzo era rimasto fuori. Oggi rischiamo di cadere in una società delle due metà. E quale Paese può sperare di risollevar­si e prosperare utilizzand­o solo la metà delle sue forze ed energie? Affermare questa consapevol­ezza di un destino comune, del bene comune, è molto più utile che negare la unicità e la portata della tragedia da cui stiamo, forse, uscendo.

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