Il Pentagono dice no a Trump
Scontri negli Usa L’uso dei soldati
Igenerali dicono «no» al presidente Donald Trump. Il capo del Pentagono Mark Esper si è detto contrario all’uso dell’esercito per sedare i disordini dopo l’uccisione di George Floyd a Minneapolis.
WASHINGTON Martedì notte, 2 giugno. Le 19, l’orario del coprifuoco imposto a Washington, sono passate da un pezzo. Sulla facciata della St. Johns Episcopal Church brillano scritte intermittenti rosse, gialle, blu. Ventiquattr’ore prima, proprio qui davanti, Donald Trump si era messo in posa con una Bibbia in mano, subito dopo che il suo ministro della Giustizia, William Barr aveva dato ordine di far sgomberare i manifestanti con i fumogeni e gli agenti a cavallo. Ora le luci laser disegnano parole come in una video installazione. Si legge: «Revolution», «Black Power» e soprattutto «I can’t breathe», «non posso respirare», l’ultima invocazione di George Floyd, sotto il ginocchio del poliziotto Derek Chauvin.
Ieri sera è arrivata l’attesa svolta nelle indagini. Il Procuratore generale del Minnesota, Keith Ellison, ha rafforzato il capo di incriminazione per Chauvin: da «omicidio colposo» a «omicidio volontario». Inoltre ha spiccato mandati di arresto per gli altri tre agenti che il 25 maggio bloccarono Floyd. Si chiamano Thomas Lane, Tou Thao e Alexander Kueng. Per loro due accuse: «complicità e favoreggiamento per omicidio».
La fronda dei generali
L’iniziativa di Trump ha diviso come sempre il Paese. Ma stavolta ha perforato anche la compattezza dell’amministrazione. Il Pentagono è in ebollizione. Martedì James Miller si è dimesso dal «Defense Advisory Board», accusando il ministro della Difesa Mark Esper di «aver violato il giuramento di difendere la Costituzione».
Scrive Miller: «Forse lei non era nelle condizioni di bloccare l’ordine dato dal presidente Trump di ricorrere a questo uso agghiacciante della forza. Ma avrebbe potuto opporsi. Invece di appoggiarlo visibilmente». Esper è un ex lobbista dell’industria della Difesa. Non ha storia politica: è «un’invenzione» di Trump che lo ha scelto per sostituire l’ingombrante generale Jim Mattis. Ma la rabbia di Miller è largamente condivisa dai militari e quindi ieri il ministro si è dovuto dissociare pubblicamente da Trump: «Il ricorso all’esercito deve essere considerato come l’ultima possibilità e solo nei casi più urgenti
e disastrosi». La piazza di nuovo piena
La linea dura di Trump non ha dato risultati. La gente è tornata in massa di fronte alla Casa Bianca. Migliaia di persone che sono rimaste fino a tardi, in violazione del coprifuoco, mentre il resto della città è deserta. La polizia ha costruito un recinto per creare una zona cuscinetto profonda circa 100 metri dal perimetro della Casa Bianca. Lo schieramento a protezione è più leggero: abbiamo contato 50 soldati nella prima linea. Gli altri restano nelle retrovie.
A ridosso della rete si assiepano tanti giovani, non solo afroamericani. Ci sono tantissime ragazze bianche, teenager oppure studentesse universitarie. Sono qui da molte ore. Ogni tanto qualcuna si stacca dal gruppo e va a sdraiarsi sul marciapiede deserto. Non hanno molta voglia di parlare. Partecipano per la prima volta alle manifestazioni. Sono diffidenti, caute. Nelle chat interne girano notizie e allarmi di ogni tipo. Attenti ai poliziotti infiltrati. Addirittura: non accettate acqua da sconosciuti, potrebbe essere avvelenata. Due neolaureate in medicina con il camice azzurro distribuiscono disinfettante per le mani, ma anche latte da
usare per lavare gli occhi dagli effetti dei fumogeni.
Il nerbo, comunque, è formato da giovani afroamericani. Alcuni di loro sono riusciti, non si sa come, ad arrivare in motorino. Non ci sono leadership e gerarchie precise. Almeno non qui. Discutono in continuazione, anche in modo acceso. Si passano di mano in mano il megafono per suggerire strategie estemporanee. Poco dopo le 19, per esempio, si consuma una «scissione». Un folto gruppo decide di formare un corteo e dirigersi verso la 14esima, la strada più animata. Gli altri restano davanti alla Casa Bianca. Alle 21.30 una ventina di ragazzi comincia a scuotere la rete di protezione. Ma sono investiti dalle urla di tutti gli altri e si fermano.
In un angolo sono ammonticchiati pacchi di acqua. Arriva un ristoratore con un cartone da cinquanta cestini (crab cake e insalata): spariscono in un attimo. «Sono al terzo round». Tutto gratis, naturalmente. Poco più in là c’è il ventisettenne Jason Frey della Ong «Headcount» che gira in monopattino per far iscrivere i giovani nei registri elettorali. Ne ha convinti 10 in un’ora. Al tramonto cinque musulmani si appartano e pregano sul marciapiede.
La «suburra»
È questa «la feccia», «la suburra» paventata da Trump? In realtà di giorno l’ala più antagonista e organizzata, come gli anarchici, gli Antifa (antifascisti) si mescola nel movimento spontaneo. Non dà il segno, non condiziona l’orientamento politico della protesta. Quello che accade a notte fonda, invece, non è ancora decifrabile e probabilmente varia da città a città. Nei quartieri periferici di Washington, è noto, agiscono diverse bande criminali. Maras importate da El Salvador, gang di «black people». Sono loro i guastatori? Oppure gli estremisti politici? O semplicemente sono saccheggi improvvisati dai giovani più violenti, ma non inquadrati in alcuna formazione? Finora abbiamo solo le parole di Trump, ma nessun fatto accertato dagli inquirenti.