Le grandi potenze stanche della Libia
Scenari La soluzione del conflitto
Sulla Libia le grandi potenze sembrano avere altre priorità. Gli Stati Uniti mandano in Tunisia una Brigata, la Russia ha altre gerarchie di intervento. L’europa, così, rischia l’emarginazione.
Il ritornello dei governi europei, italiano in testa, è sempre lo stesso: in Libia «non esiste una soluzione militare», e soltanto la diplomazia può portare la pace. Se lo sono ripetuti in questi giorni Giuseppe Conte e il tripolino Fayez al-serraj, facendo finta di non sapere che quest’ultimo siede sulle baionette turche.
Ma attenzione, perché un cambiamento fondamentale potrebbe essere in rampa di lancio. Se le grandi potenze sempre più direttamente coinvolte si stancassero di una guerra civile diventata marginale in tempi di pandemia e di elezioni (negli Usa). Se le capitali che contano davvero prendessero atto del logoramento personale, politico e anche militare dei due nemici di Bengasi e di Tripoli. Se alle conferenze di massa organizzate dalle diplomazie europee compresa la nostra si sostituisse un dialogo diretto tra potenti della terra e ne risultasse magari una operazione di peace enforcing affidata a forze africane dell’onu. Se tutto ciò accadesse, allora l’ipocrisia potrebbe diventare verità e in Libia davvero non ci sarebbe più bisogno di una «soluzione militare» come la intendiamo oggi.
Va detto che non siamo ancora a una simile svolta. Ma gli indizi in tal senso ci sono, e si moltiplicano man mano che risulta palese a tutti come la guerra per procura in Libia rischi di trascinare i veri attori protagonisti ben oltre le loro intenzioni strategiche. Sarebbe un errore trascurarli, questi indizi. Soprattutto per l’italia, con i suoi cospicui interessi energetici in Libia e con la questione migranti che potrebbe riesplodere a breve, in estate: dopotutto di Covid-19 nel Meridione ce n’è poco, e un rischio limitato è sempre meglio di un missile in arrivo. Senza contare che i trafficanti di carne umana e i loro complici hanno già perso molti soldi nei mesi scorsi, e anche loro vogliono una fase due o tre.
Quali sono, allora, le novità da tenere d’occhio? Intanto i Grandi hanno imposto alle due parti in lotta una ripresa negoziale sotto patrocinio Onu (anche se in passato si è rivelata spesso improduttiva). Ma non basta. Sabato scorso lo Us Africa Command ha annunciato il prossimo invio in Tunisia di una Brigata con compiti di addestramento. Non forze combattenti, dunque, ma si sa che la differenza tra le due missioni è diventata sempre più sottile. E i commenti contenuti nell’annuncio hanno fugato eventuali dubbi: «La Russia soffia sul fuoco del conflitto, siamo preoccupati» ha spiegato il Comando americano. Del resto basta guardare una carta geografica: nell’instabile e fragile Tunisia i russi potrebbero cercare un porto o una base aerea, e prendere tra due fuochi la Tripolitania che sta respingendo verso oriente le forze di Haftar. Le modalità mediatiche della mossa statunitense e la scelta della Tunisia somigliano a un altolà di Trump, che sin qui in tema di Libia aveva sempre guardato dall’altra parte.
Poi c’è la Russia. Il Cremlino non poteva incassare senza reagire i pessimi risultati del generale Haftar dopo oltre un anno di offensiva contro Tripoli. Ai contractor della Wagner sono stati perciò affiancati quattordici Mig-29 e Su24 con base nell’aeroporto di Jufra. Per ora il loro ruolo è di deterrenza contro i turchi che stanno facendo vincere le forze di Tripoli, ma anche qui esiste una novità più profonda: per la prima volta Putin ha mandato in Libia forze regolari e aerei da prima linea, e lo ha fatto in un momento particolarmente difficile per la situazione interna della Russia (pandemia, consenso alla prova nel referendum del primo di luglio, economia in crisi e prezzo del petrolio troppo basso). Visto che altrove, segnatamente in Siria, turchi e russi riescono senza troppe difficoltà a non pestarsi i piedi, la Libia dovrà essere per forza diversa? Putin vuole davvero lo scontro? Improbabile.
La Cina segue con discrezione, ma non vuole farsi escludere. Gli Emirati Arabi e l’arabia Saudita non si sbilanciano più come prima. La Turchia che sta sconfiggendo Haftar con i suoi droni non rinuncia ai bellicosi proclami di Erdogan, ma in realtà ha già raggiunto i suoi obiettivi: quelli di avere una base a Tripoli (Serraj ieri è corso ad Ankara) e di essere riconosciuta protagonista quando si parlerà di idrocarburi nel Mediterraneo, oltre che in Libia. All’egitto interessa la stabilità della Libia orientale e delle zone di confine, per il resto Il Cairo (dove ieri si è recato Haftar) è pronto a discutere con Mosca come con Washington. E soprattutto, se parliamo di indizi, c’è il fallimento dei seguiti della Conferenza di Berlino, che non rispondono più a un metodo diplomatico praticabile. In questa categoria, quella delle speranze sbagliate, rientrano anche Italia e Francia malgrado l’azione comune concordata ieri alla Farnesina. Roma e Parigi potranno comunque consolarsi con una più fattiva collaborazione militare nel Sahel.
Ma quel che davvero potrà cambiare il caos libico e darci una maggiore sicurezza sarà soltanto la stanchezza dei Grandi, la loro volontà di non giocare più col fuoco. L’alternativa è una escalation mediterranea e nord-africana che non pare corrispondere né agli interessi di Mosca né a quelli di Washington. E che certo non sarebbe nell’interesse dell’italia, ormai lontana da una «cabina di regia» che spetta ad altri.
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