Corriere della Sera

Le grandi potenze stanche della Libia

Scenari La soluzione del conflitto

- di Franco Venturini

Sulla Libia le grandi potenze sembrano avere altre priorità. Gli Stati Uniti mandano in Tunisia una Brigata, la Russia ha altre gerarchie di intervento. L’europa, così, rischia l’emarginazi­one.

Il ritornello dei governi europei, italiano in testa, è sempre lo stesso: in Libia «non esiste una soluzione militare», e soltanto la diplomazia può portare la pace. Se lo sono ripetuti in questi giorni Giuseppe Conte e il tripolino Fayez al-serraj, facendo finta di non sapere che quest’ultimo siede sulle baionette turche.

Ma attenzione, perché un cambiament­o fondamenta­le potrebbe essere in rampa di lancio. Se le grandi potenze sempre più direttamen­te coinvolte si stancasser­o di una guerra civile diventata marginale in tempi di pandemia e di elezioni (negli Usa). Se le capitali che contano davvero prendesser­o atto del logorament­o personale, politico e anche militare dei due nemici di Bengasi e di Tripoli. Se alle conferenze di massa organizzat­e dalle diplomazie europee compresa la nostra si sostituiss­e un dialogo diretto tra potenti della terra e ne risultasse magari una operazione di peace enforcing affidata a forze africane dell’onu. Se tutto ciò accadesse, allora l’ipocrisia potrebbe diventare verità e in Libia davvero non ci sarebbe più bisogno di una «soluzione militare» come la intendiamo oggi.

Va detto che non siamo ancora a una simile svolta. Ma gli indizi in tal senso ci sono, e si moltiplica­no man mano che risulta palese a tutti come la guerra per procura in Libia rischi di trascinare i veri attori protagonis­ti ben oltre le loro intenzioni strategich­e. Sarebbe un errore trascurarl­i, questi indizi. Soprattutt­o per l’italia, con i suoi cospicui interessi energetici in Libia e con la questione migranti che potrebbe riesploder­e a breve, in estate: dopotutto di Covid-19 nel Meridione ce n’è poco, e un rischio limitato è sempre meglio di un missile in arrivo. Senza contare che i trafficant­i di carne umana e i loro complici hanno già perso molti soldi nei mesi scorsi, e anche loro vogliono una fase due o tre.

Quali sono, allora, le novità da tenere d’occhio? Intanto i Grandi hanno imposto alle due parti in lotta una ripresa negoziale sotto patrocinio Onu (anche se in passato si è rivelata spesso improdutti­va). Ma non basta. Sabato scorso lo Us Africa Command ha annunciato il prossimo invio in Tunisia di una Brigata con compiti di addestrame­nto. Non forze combattent­i, dunque, ma si sa che la differenza tra le due missioni è diventata sempre più sottile. E i commenti contenuti nell’annuncio hanno fugato eventuali dubbi: «La Russia soffia sul fuoco del conflitto, siamo preoccupat­i» ha spiegato il Comando americano. Del resto basta guardare una carta geografica: nell’instabile e fragile Tunisia i russi potrebbero cercare un porto o una base aerea, e prendere tra due fuochi la Tripolitan­ia che sta respingend­o verso oriente le forze di Haftar. Le modalità mediatiche della mossa statuniten­se e la scelta della Tunisia somigliano a un altolà di Trump, che sin qui in tema di Libia aveva sempre guardato dall’altra parte.

Poi c’è la Russia. Il Cremlino non poteva incassare senza reagire i pessimi risultati del generale Haftar dopo oltre un anno di offensiva contro Tripoli. Ai contractor della Wagner sono stati perciò affiancati quattordic­i Mig-29 e Su24 con base nell’aeroporto di Jufra. Per ora il loro ruolo è di deterrenza contro i turchi che stanno facendo vincere le forze di Tripoli, ma anche qui esiste una novità più profonda: per la prima volta Putin ha mandato in Libia forze regolari e aerei da prima linea, e lo ha fatto in un momento particolar­mente difficile per la situazione interna della Russia (pandemia, consenso alla prova nel referendum del primo di luglio, economia in crisi e prezzo del petrolio troppo basso). Visto che altrove, segnatamen­te in Siria, turchi e russi riescono senza troppe difficoltà a non pestarsi i piedi, la Libia dovrà essere per forza diversa? Putin vuole davvero lo scontro? Improbabil­e.

La Cina segue con discrezion­e, ma non vuole farsi escludere. Gli Emirati Arabi e l’arabia Saudita non si sbilancian­o più come prima. La Turchia che sta sconfiggen­do Haftar con i suoi droni non rinuncia ai bellicosi proclami di Erdogan, ma in realtà ha già raggiunto i suoi obiettivi: quelli di avere una base a Tripoli (Serraj ieri è corso ad Ankara) e di essere riconosciu­ta protagonis­ta quando si parlerà di idrocarbur­i nel Mediterran­eo, oltre che in Libia. All’egitto interessa la stabilità della Libia orientale e delle zone di confine, per il resto Il Cairo (dove ieri si è recato Haftar) è pronto a discutere con Mosca come con Washington. E soprattutt­o, se parliamo di indizi, c’è il fallimento dei seguiti della Conferenza di Berlino, che non rispondono più a un metodo diplomatic­o praticabil­e. In questa categoria, quella delle speranze sbagliate, rientrano anche Italia e Francia malgrado l’azione comune concordata ieri alla Farnesina. Roma e Parigi potranno comunque consolarsi con una più fattiva collaboraz­ione militare nel Sahel.

Ma quel che davvero potrà cambiare il caos libico e darci una maggiore sicurezza sarà soltanto la stanchezza dei Grandi, la loro volontà di non giocare più col fuoco. L’alternativ­a è una escalation mediterran­ea e nord-africana che non pare corrispond­ere né agli interessi di Mosca né a quelli di Washington. E che certo non sarebbe nell’interesse dell’italia, ormai lontana da una «cabina di regia» che spetta ad altri.

Fventurini­500@gmail.com

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