Floyd, i calciatori hanno trovato il diritto all’opinione
Icalciatori stanno cambiando. Le vecchie generazioni erano senza politica e comunque piene di conservatori. Quando arrivavano i centravanti alla Paolo Sollier erano casi strani e trattati con una grande attenzione, colpevole proprio perché intensa. Oggi in tutto il mondo i calciatori si inginocchiano in mezzo al campo per rendere omaggio a George Floyd, il nero ucciso da un poliziotto di Minneapolis nei giorni scorsi. Sono gesti normali per molti, non lo sono mai stati per i calciatori, ragazzi giovani, subito ricchi, lontani dalla vita degli altri. Sta davvero cambiando qualcosa? Credo di sì. Non una cosa grande, tanti piccoli momenti impercettibili, persi nelle abitudini delle partite, che adesso cominciano a contare. Partiamo dai buu negli stadi. Venti anni fa erano rari perché c’erano pochi neri in Italia. Oggi abbiamo il 60 per cento di stranieri, poco meno della metà sono neri. Quindi l’offesa diventa consuetudine e l’abitudine rabbia, crea il bisogno di dire basta. Sono poi arrivati i social, il rapporto tra pubblico e giocatori è diventato quasi privato. C’è un’informazione pettegola ma affettuosa, che ha fatto diventare tutti piccoli parenti o grandi avversari, non ci si può più ignorare nel calcio. Il colore della pelle ha smesso di essere un’evidenza. I buu sono rimasti agli ottusi, un male meno pesante perché aspettato. Ma anche il buu è un tifo vecchio, senza ironia, sarà sempre meno usato perché ormai assomiglia a un autogol. D’altra parte il mondo cambia sempre. Due secoli fa l’america era degli indiani, la Lombardia di Austriaci-francesi-spagnoli, la Puglia dei Normanni, la Francia aveva re italiani. È l’abitudine al diverso che alla fine ci tocca e rende diversi anche noi. La comunicazione globale infine sposta i sentimenti semplici, quelli evidenti. Si fa raccogliere. Può essere cattiva, ma sa anche uccidere le sciocchezze. La reazione del calcio alla storia di George Floyd diventa ora un atto d’indipendenza dei giocatori. Stanno capendo che per un secolo sono stati un po’ neri anche loro. Senza il diritto a un’opinione, a una lotta, a un rifiuto. Solo con il dovere facile di essere ricchi. In Germania stavano cercando di punire Thuram e gli altri giocatori che avevano protestato con lui. Perfino la Fifa ha capito che sarebbe stato sbagliato e ha inventato il buon senso costringendo la Bundesliga a cambiare decisione. È il tempo di una nuova coscienza per i calciatori. Lo si è visto per come siamo usciti dal virus. Hanno deciso quasi tutto loro: se andare in ritiro, come andarci, a che orario giocare, se e quanto tagliarsi gli stipendi. È un processo di avvicinamento che cominciò con Bosman, è proseguito con il caso Icardi, si è compiuto forse con Minneapolis. Presto toccherà a loro dirigere l’intero movimento.