Corriere della Sera

L’ossessione del bavaglio

Cancellare opinioni sgradite e il rischio oscurantis­mo

- Di Pierluigi Battista

Donald Trump conta quasi 82 milioni di persone che in America e in tutto il mondo lo seguono su Twitter.

N on tutti sono suoi seguaci, molti sono soltanto curiosi, altri sono follower per lavoro nel campo della politica e dell’informazio­ne, altri ancora sono nemici politici che studiano le mosse comunicati­ve del presidente degli Stati Uniti per svelarne le strategie e colpirlo meglio. I responsabi­li di Twitter, mezzo che Trump usa senza risparmio perché ha una concezione plebiscita­ria della comunicazi­one politica e detesta le mediazioni del giornalism­o che considera ostile e inaffidabi­le, hanno deciso che è troppo pericoloso e di fare la guerra all’inquilino della Casa Bianca, censurando prima un post, tutto sommato non di centrale interesse, sulla possibilit­à di brogli elettorali sul voto postale, e poi addirittur­a un video presidenzi­ale sulla morte violenta di George Floyd, formalment­e messo nel mirino per non centraliss­ime questioni di copyright.

Negli stessi giorni i giornalist­i del New York Times si sono indignati perché il giornale simbolo dell’informazio­ne liberal aveva deciso di pubblicare nella pagina delle opinioni, dunque non come intervento rappresent­ativo della linea del giornale, un articolo del senatore trumpiano Tom Cotton in cui si invocava l’intervento dell’esercito per stroncare gli episodi di violenza e di saccheggio che si sono verificati durante le proteste per l’assassinio di

Floyd. Un articolo che invocava scelte di matrice razzista, hanno detto costringen­do la proprietà a correggere il proprio iniziale punto di vista in difesa del pluralismo, e che, secondo i giornalist­i del New York Times,ha sporcato il tempio del giornalism­o progressis­ta, un cedimento intollerab­ile, una macchia indelebile sull’identità stessa di uno dei simboli dell’informazio­ne progressis­ta.

Ma è giusto censurare opinioni sgradevoli e verso le quali si nutrono legittimam­ente sentimenti ostili? Non c’è il pericolo di un nuovo oscurantis­mo animato dalle buone intenzioni, il rischio di arrogarsi il diritto di decidere arbitraria­mente ciò che è pubblicabi­le da ciò che non lo è in ragione di superiori motivazion­i morali? O di liquidare come pericolose e censurabil­i opinioni anche molto distanti ma che pure non dovrebbero passare sotto le forche caudine di un sinedrio censorio che stabilisce ciò che si deve pubblicare e ciò che deve essere cancellato?

Il dubbio è che una certa propension­e a mettere sotto silenzio opinioni estreme sia animata dal sospetto che l’opinione pubblica, vulnerabil­e e fragile, debba essere difesa, protetta, messa sotto tutela. Come se ci si sentisse in obbligo di tutelare un pubblico infantiliz­zato, incapace di difendersi, debole e privo di filtri critici per giudicare e farsi autonomame­nte un’opinione.

Non è solo un tema che riguarda gli Stati Uniti, ovviamente. E non bisogna nemmeno sottovalut­are la forza e

Le conseguenz­e È come se ci si sentisse in obbligo di tutelare un pubblico infantiliz­zato, incapace di difendersi

la pervasivit­à degli stereotipi razzisti e xenofobi che circolano sui media e sul campo senza confini dei social. Ma non rischia di alimentare una vena autoritari­a questa ossessiva propension­e a mettere bavagli preventivi, a ergersi a tutori di un’opinione pubblica trattata come i bambini che non possono andare a vedere film vietati ai minori? Può esistere una censura sia pur animata dalle buone intenzioni che tratti l’opinione pubblica come una scolaresca da proteggere dalle cattive influenze?

Sono domande che valgono negli Stati Uniti ma anche in Italia. Oggi nel mirino è il pericolo di derive razziste, di parole incendiari­e che possono alimentare intolleran­ze e discrimina­zioni. Ma in passato, lo sappiamo bene in Italia, a diventare bersaglio di tentazioni censorie furono i «cattivi maestri» dell’estrema sinistra così definiti perché venivano considerat­i i curatori dell’arsenale ideologico del terrorismo rosso. Si colpivano le parole perché considerat­e le ispiratric­i di azioni eversive, cancelland­o ogni distinzion­e tra parole e fatti, tra opinioni estreme e reati.

E non si può dimenticar­e che anche la strage dei giornalist­i e vignettist­i della rivista satirica Charlie Hebdo nel gennaio del 2015 a Parigi fu accompagna­ta, sia pur nel lutto generale, dal rimprovero formulato in molti ambienti ai vignettist­i colpevoli di aver esagerato, oltrepassa­to i limiti, alimentato, appunto, forme di islamofobi­a offensive nei confronti di Maometto e dunque potenzialm­ente violente. Anche oggi, è come se Twitter volesse arbitraria­mente candidarsi al ruolo di tutore degli ottanta milioni di utenti che seguono il presidente degli Stati Uniti. Come se la grande, planetaria arena pubblica avesse timore delle sue stesse sconfinate dimensioni e venisse attratta dall’idea di indossare i panni di una nuova, gentile, benintenzi­onata inquisizio­ne. Una tentazione pedagogica che si arroga il diritto di stabilire quali sono le opinioni accettabil­i e quelle pericolose, pericolose soprattutt­o per un uditorio immaturo e influenzab­ile.

A fin di bene, le democrazie moderne e liberali rischiano di smentire se stesse, senza esserne consapevol­i.

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