L’ossessione del bavaglio
Cancellare opinioni sgradite e il rischio oscurantismo
Donald Trump conta quasi 82 milioni di persone che in America e in tutto il mondo lo seguono su Twitter.
N on tutti sono suoi seguaci, molti sono soltanto curiosi, altri sono follower per lavoro nel campo della politica e dell’informazione, altri ancora sono nemici politici che studiano le mosse comunicative del presidente degli Stati Uniti per svelarne le strategie e colpirlo meglio. I responsabili di Twitter, mezzo che Trump usa senza risparmio perché ha una concezione plebiscitaria della comunicazione politica e detesta le mediazioni del giornalismo che considera ostile e inaffidabile, hanno deciso che è troppo pericoloso e di fare la guerra all’inquilino della Casa Bianca, censurando prima un post, tutto sommato non di centrale interesse, sulla possibilità di brogli elettorali sul voto postale, e poi addirittura un video presidenziale sulla morte violenta di George Floyd, formalmente messo nel mirino per non centralissime questioni di copyright.
Negli stessi giorni i giornalisti del New York Times si sono indignati perché il giornale simbolo dell’informazione liberal aveva deciso di pubblicare nella pagina delle opinioni, dunque non come intervento rappresentativo della linea del giornale, un articolo del senatore trumpiano Tom Cotton in cui si invocava l’intervento dell’esercito per stroncare gli episodi di violenza e di saccheggio che si sono verificati durante le proteste per l’assassinio di
Floyd. Un articolo che invocava scelte di matrice razzista, hanno detto costringendo la proprietà a correggere il proprio iniziale punto di vista in difesa del pluralismo, e che, secondo i giornalisti del New York Times,ha sporcato il tempio del giornalismo progressista, un cedimento intollerabile, una macchia indelebile sull’identità stessa di uno dei simboli dell’informazione progressista.
Ma è giusto censurare opinioni sgradevoli e verso le quali si nutrono legittimamente sentimenti ostili? Non c’è il pericolo di un nuovo oscurantismo animato dalle buone intenzioni, il rischio di arrogarsi il diritto di decidere arbitrariamente ciò che è pubblicabile da ciò che non lo è in ragione di superiori motivazioni morali? O di liquidare come pericolose e censurabili opinioni anche molto distanti ma che pure non dovrebbero passare sotto le forche caudine di un sinedrio censorio che stabilisce ciò che si deve pubblicare e ciò che deve essere cancellato?
Il dubbio è che una certa propensione a mettere sotto silenzio opinioni estreme sia animata dal sospetto che l’opinione pubblica, vulnerabile e fragile, debba essere difesa, protetta, messa sotto tutela. Come se ci si sentisse in obbligo di tutelare un pubblico infantilizzato, incapace di difendersi, debole e privo di filtri critici per giudicare e farsi autonomamente un’opinione.
Non è solo un tema che riguarda gli Stati Uniti, ovviamente. E non bisogna nemmeno sottovalutare la forza e
Le conseguenze È come se ci si sentisse in obbligo di tutelare un pubblico infantilizzato, incapace di difendersi
la pervasività degli stereotipi razzisti e xenofobi che circolano sui media e sul campo senza confini dei social. Ma non rischia di alimentare una vena autoritaria questa ossessiva propensione a mettere bavagli preventivi, a ergersi a tutori di un’opinione pubblica trattata come i bambini che non possono andare a vedere film vietati ai minori? Può esistere una censura sia pur animata dalle buone intenzioni che tratti l’opinione pubblica come una scolaresca da proteggere dalle cattive influenze?
Sono domande che valgono negli Stati Uniti ma anche in Italia. Oggi nel mirino è il pericolo di derive razziste, di parole incendiarie che possono alimentare intolleranze e discriminazioni. Ma in passato, lo sappiamo bene in Italia, a diventare bersaglio di tentazioni censorie furono i «cattivi maestri» dell’estrema sinistra così definiti perché venivano considerati i curatori dell’arsenale ideologico del terrorismo rosso. Si colpivano le parole perché considerate le ispiratrici di azioni eversive, cancellando ogni distinzione tra parole e fatti, tra opinioni estreme e reati.
E non si può dimenticare che anche la strage dei giornalisti e vignettisti della rivista satirica Charlie Hebdo nel gennaio del 2015 a Parigi fu accompagnata, sia pur nel lutto generale, dal rimprovero formulato in molti ambienti ai vignettisti colpevoli di aver esagerato, oltrepassato i limiti, alimentato, appunto, forme di islamofobia offensive nei confronti di Maometto e dunque potenzialmente violente. Anche oggi, è come se Twitter volesse arbitrariamente candidarsi al ruolo di tutore degli ottanta milioni di utenti che seguono il presidente degli Stati Uniti. Come se la grande, planetaria arena pubblica avesse timore delle sue stesse sconfinate dimensioni e venisse attratta dall’idea di indossare i panni di una nuova, gentile, benintenzionata inquisizione. Una tentazione pedagogica che si arroga il diritto di stabilire quali sono le opinioni accettabili e quelle pericolose, pericolose soprattutto per un uditorio immaturo e influenzabile.
A fin di bene, le democrazie moderne e liberali rischiano di smentire se stesse, senza esserne consapevoli.