Corriere della Sera

LA GIUSTIZIA RIMOSSA

Toghe L’ordine giudiziari­o è scosso dalla melma che emerge nelle intercetta­zioni e fa tremare di nuovo il Csm

- di Paolo Mieli

Distratta dall’annunciata pioggia di miliardi in arrivo dall’europa e dalla prospettiv­a degli «Stati generali per la rinascita» di Giuseppe Conte

(a cui saranno ammesse, si apprende, anche star del mondo artistico), l’italia — appena uscita dall’epidemia — non ha avuto il tempo per accorgersi del mare di melma che sta sommergend­o l’ordine giudiziari­o. I magistrati perbene assistono attoniti e forse rassegnati, come è lecito desumere dal loro silenzio. I media sfornano le intercetta­zioni di alcuni disinvolti colleghi togati che ordiscono trame per spartirsi Procure e altri posti di potere. Per lo più ricorrendo a un linguaggio assai sconvenien­te. Il caso d’origine è nuovamente quello dell’ex capo dell’anm Luca Palamara che scoppiò un anno fa e, già allora, fece vacillare il Consiglio superiore della magistratu­ra. Adesso è riesploso con una nuova messe di intercetta­zioni: il Csm ha tremato una seconda volta ed è stato nuovamente costretto a intervenir­e Sergio Mattarella. Le pagine in cui sono state verbalizza­te le chiacchier­e dei tessitori di trame sarebbero sessantami­la, ragion per cui possiamo immaginare che le indiscrezi­oni continuera­nno ad essere distillate a lungo. Magari per sgambettar­e questo o quel giudice in carriera.

Stavolta tutto ha avuto una certa eco, quasi casualment­e, allorché nella trasmissio­ne domenicale di Massimo Giletti, «Non è l’arena», è giunta un’inattesa telefonata del giudice Nino Di Matteo. Il quale, in modo sobrio e impeccabil­mente circostanz­iato, ha reso noto che nel giugno del 2018 il ministro di Giustizia Alfonso Bonafede gli offrì la guida del Dipartimen­to amministra­zione penitenzia­ria e il giorno successivo si rimangiò la proposta. Niente di che, all’apparenza. Cose che capitano. Senonché la memoria di Di Matteo si è risvegliat­a nel momento in cui — in seguito al clamore provocato dalla provvisori­a uscita dal carcere, per il Covid, di qualche centinaio di malviventi — l’uomo nominato due anni fa alla guida del Dap, Francesco Basentini, è stato costretto alle dimissioni. Poi a capo del Dipartimen­to è stato nominato Dino Petralia, procurator­e generale di Reggio Calabria. Neanche stavolta è toccato a Di Matteo, nel frattempo approdato al Consiglio superiore della magistratu­ra.

Con ammirevole tenacia — forse anche perché gli ascolti nel frattempo crescevano — Giletti, nelle domeniche successive, ha continuato a riproporre il quesito: cosa indusse Bonafede a comportars­i in quel modo scortese con Di Matteo? Domanda non impropria se si tiene conto del fatto che il magistrato del cosiddetto «processo trattativa Stato-mafia» da anni era una sorta di mito per il Movimento 5 Stelle; Beppe Grillo e i suoi seguaci lo adulavano colmandolo di compliment­i e annunciava­no in ogni occasione che, fossero mai giunti al potere, lo avrebbero nominato ministro di Giustizia. Come

minimo. Ma quando nel giugno del 2018 andarono al governo, si dimenticar­ono di lui. Tutti, tranne Bonafede che, divenuto titolare del ministero idealmente assegnato all’eroe del M5S, ritenne di sdebitarsi offrendogl­i quel posto al Dap che per importanza equivale a quello di Capo della Polizia. Mentre glielo proponeva, sia Bonafede che Di Matteo sapevano che alcuni mafiosi imprigiona­ti annunciava­no un finimondo nel caso quel magistrato fosse stato messo alla guida del Dipartimen­to. Anzi il ministro lasciò intendere che era proprio per aver avuto conoscenza delle minacce dei boss che aveva deciso di chiamarlo a quell’incarico. Poi però nel corso di poche ore notturne ci

d Potere

Il problema non è più quello di porre rimedio a una subalterni­tà alla politica

ripensò. E scelse in sua vece un giudice, per così dire, molto diverso da Di Matteo. In ogni caso assai meno idolatrato dai militanti del Movimento. Cosa accadde quella notte di giugno del 2018? Ci fu qualche veto?

Anche Bonafede poche domeniche fa telefonò in diretta a «Non è l’arena» e non trovò spiegazion­i convincent­i al cambiament­o di idea di due anni prima. Dopodiché il ministro fu investito dalla mozione di sfiducia, salvato per il rotto della cuffia da Matteo Renzi e del caso Di Matteo non si parlò più. Si notò che coloro i quali in passato ne avevano fatto oggetto di venerazion­e, in quel frangente lo avevano abbandonat­o al proprio destino e avevano difeso il ministro. Qualcuno aveva addirittur­a ironizzato suggerendo al giudice di guardare meno la tv. Tutti fecero finta di non capire. A cominciare da politici e opinionist­i del centrodest­ra che tuttora ritengono Di Matteo un persecutor­e di Berlusconi e da quelli del centrosini­stra (moderato) che lo ricordano come il magistrato che provocò qualche turbamento a Giorgio Napolitano. Gli altri considerar­ono non opportuno esporre Bonafede (e Conte) a un rischio e lasciarono il magistrato palermitan­o al suo destino. Senza nemmeno curare le forme e riconoscer­ne in qualche modo le ragioni.

Tutti tranne il sindaco di Napoli, l’ex magistrato Luigi de Magistris, che quelle vicende ha mostrato di conoscerle assai bene e ha corroborat­o le successive puntate dell’inchiesta di Giletti con rilievi assai circostanz­iati su molti uomini che hanno ruotato intorno al Dap di Basentini. Persino su Giulio Romano, capo dell’ufficio trattament­o dei detenuti, un beniamino dei radicali eredi di Marco Pannella. Si trattava di accuse davvero terribili. De Magistris mandava i suoi siluri, faceva vedere che aveva in mano dei fogli e curiosamen­te il giorno successivo nessuna delle persone citate replicava, spiegava, querelava. Poi è arrivato nello studio di «La7» anche Palamara. E lì, nonostante il ricorso a parole forbite, la semplice esposizion­e delle modalità con cui si procede ancor oggi alle nomine degli incarichi in campo giudiziari­o faceva rabbrividi­re. Palamara ha tenuto a citare il nome dei più importanti procurator­i della Repubblica per sottolinea­re come lui in persona avesse avuto parte nella loro designazio­ne. Talvolta, ha lasciato intendere, d’accordo con l’uomo di maggior rilievo (per prestigio, notorietà e forza acquisita) nella magistratu­ra italiana: Piercamill­o Davigo. Quantomeno con qualcuno della sua corrente.

E qui siamo giunti al punto: le correnti della magistratu­ra che sono diventate qualcosa di assai anomalo. Non se ne conoscono più i motivi di differenzi­azione ideologica. Appaiono centri di potere e come tali si muovono. Sono fortissime, si alleano, si combattono. Si sa di pochi magistrati che abbiano fatto carriera senza aver preso parte a questa particolar­e forma di vita associativ­a. Ricorrono, le correnti, al linguaggio della politica — «destra», «sinistra» — ma è un’evidente finzione. A questo punto è chiaro che il problema non è più, come in passato, quello di porre rimedio a una subalterni­tà alla politica. La politica è con le spalle al muro. Il potere sono loro, i magistrati che hanno in mano le correnti. Della crescita di questo potere hanno dato prova negli ultimi venticinqu­e anni contribuen­do non marginalme­nte a far saltare in aria i governi di Silvio Berlusconi e di Romano Prodi; mettendo alle corde Matteo Renzi e Matteo Salvini; infilzando una gran quantità di politici di calibro minore. Pochissimi tra questi uomini di partito piccoli e grandi hanno resistito, quando se ne è presentata l’opportunit­à, alla tentazione di approfitta­re dei guai giudiziari dei propri avversari. Tutti, allorché sono stati investiti dalle inchieste, si sono aggrappati alla tenda e hanno pronunciat­o orazioni che, nei loro intenti, avrebbero dovuto lasciar traccia nei libri di storia. Ma, di quei discorsi, nei libri di storia ne resterà solo uno: quello di Bettino Craxi del 3 luglio 1992.

E un cambiament­o virtuoso della giustizia italiana si avrà solo quando un magistrato darà battaglia al sistema degenerato delle correnti. A testa alta, mentre è ancora in servizio. Mettendo nel conto che subirà l’ostracismo dei colleghi. Tutti. O quasi.

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