Ma chi decide il ritorno alla normalità?
Chi avrà il coraggio civile e la responsabilità istituzionale di dire, quando si potrà, che lo stato d’emergenza è finito e che si può ritornare a una vita davvero normale? Ci è voluto molto tempo, troppo tempo, per percepire la penetrazione del virus tra noi — ora si scopre che circolava da gennaio — e molto per decidere, giustamente, di determinare, attraverso il lockdown, quella barriera alla diffusione del contagio che ha, evidentemente, funzionato.
Tanto ha funzionato che da settimane, ormai, la velocità della curva dell’epidemia ha dapprima rallentato e ora sembra quasi essersi arrestata. In molte regioni italiane infatti siamo già da giorni a contagi zero.
Non bisogna abbassare la guardia, il virus può ripresentarsi in autunno o in inverno, e bisogna mantenere anche in futuro elementari norme igieniche come il lavarsi spesso le mani etc. Tutto vero. Ma quale è il momento in cui qualcuno deciderà che si può tornare a lavorare, intraprendere, imparare e insegnare, relazionarsi con gli altri secondo quella «normalità» della vita umana che non può essere considerata un’anomalia o un pericolo ma, semplicemente, il primo obiettivo da riconquistare? Il primo, inalienabile.
Non è naturale usare le mascherine, non darsi la mano, non abbracciarsi, non poter condividere un luogo di lavoro, una classe scolastica o un evento culturale. Il Paese ha accettato tutto con ben maggiore senso di responsabilità di quello mostrato da uomini politici che convocavano manifestazioni senza nessuna cura delle precauzioni rese necessarie da un incubo che a tante persone ha fatto perdere il lavoro o che le ha tenute lontane dai loro affetti, persino nel momento della morte.
Sento dire spesso, con onestà, dalle autorità politiche e scientifiche: «Non abbiamo certezze». Ma si deve immaginare cosa questa frase produce in cittadini che vivono una così radicale trasformazione del modo di vivere e, spesso isolati e dispersi, sono travolti da uno tsunami sociale di enormi dimensioni.
Questa non può essere la normalità. Né si può pensare, indicando il rischio di una possibile nuova ondata epidemica, di far passare ancora mesi e mesi in queste condizioni di «cattività», rendendola permanente.
D’altra parte ormai è un mese che il lockdown più radicale è stato progressivamente dismesso e non ci sono stati segnali rilevanti del riaccendersi dell’infezione. Nessuno ha saputo spiegare come questo sia accaduto. Qualcuno ha attribuito il merito al caldo, in analogia con il comportamento di altri coronavirus, altri agli effetti benefici di quel discutibile ossimoro che va sotto il nome di «distanziamento socia
le». Ma, diciamoci la verità, molti virologi, epidemiologi, clinici di varia natura e orientamento hanno confessato onestamente la verità: questo virus, nella sua violenta e bruciante manifestazione, segue percorsi difficilmente prevedibili e spiegabili. Per questo si è ballato tanto sulle terapie, sull’utilità delle mascherine, sul test sierologico, sui tamponi. E per questo ora si affollano spiegazioni diverse sulla natura di questo veloce ridimensionamento dell’epidemia, sulla minore virulenza dei casi che, pochi, si manifestano e sul fatto che nonostante la ripresa dell’attività sociale, compresa la tanto demonizzata voglia di incontro dei ragazzi, niente ci indichi che l’orrendo mostro a più teste che ha ucciso trentatremila persone nel nostro Paese, ne ha contagiate più di sei milioni nel mondo, abbia ripreso, qui da noi, a falciare con la spietatezza dei mesi scorsi.
Ma io non credo che, nell’attesa di capire perché ora i contagi, al netto della situazione lombarda, siano un centinaio al giorno — in un Paese di sessanta milioni di abitanti —, si possa decidere di continuare all’infinito a restringere tante libertà individuali e collettive, si possa produrre, pur senza volerlo, la chiusura di tante attività, la perdita di tanti posti di lavoro, tanta disperazione sociale. Il Paese, con le mascherine, le file, i contingentamenti di tutto rischia di non arrivare in piedi all’appuntamento con l’autunno. Si pensi al turismo, ai servizi, alla cultura, al tessuto delle piccole e medie imprese.
Lasciamo agli squinternati sostenitori dell’inesistenza del virus — lo vadano a dire a medici, infermieri, parenti delle vittime — l’idea che si possa far finta di niente, visto che la pandemia sarebbe solo un complotto ordito da Bill Gates con la complicità di Conte e di Mattarella. Certamente dovremo continuare a essere vigili e a rispettare le prescrizioni sanitarie. Ma la domanda è: fino a quando? Fino a quando, in presenza di una tendenza al «contagio zero» si potrà tenere il Paese in ginocchio, le persone terrorizzate di perdere il lavoro, i bambini a scuola separati dal plexiglas e tutti impossibilitati a vivere una vita normale?
Non dobbiamo abituarci all’idea che sia questa la «normalità» della vita. Tutti i cambiamenti, profondi, del nostro modello di sviluppo e della nostra idea di comunità non possono passare per la negazione di libertà fondamentali. Ad esse si è rinunciato responsabilmente in questi mesi. Ma ci deve essere una scadenza. Senza forzature irresponsabili ma con la chiarezza dell’obiettivo. E, se possibile, in un clima civile come quello auspicato da Mattarella. Con la certezza che al momento dato, forse tra poco, qualcuno abbia il coraggio di decidere. In passato, nelle gare di velocità del ciclismo su pista, i due sfidanti si fermavano immobili, anche per ore, nella parte alta della pista in attesa del passo falso dell’avversario. Questa tattica veniva chiamata surplace.
Ecco: nessuna fuga in avanti, per carità. Ma, allo stesso modo, nessun surplace. Il Paese è sfibrato e sta smettendo di credere alle promesse. Bisogna, da parte delle istituzioni, garantire ai cittadini l’onestà civile che muove le decisioni più difficili. Si deve assicurare che non si rinvierà per pavidità o furbizia politica.
Perché l’obiettivo deve essere restituire presto agli italiani il diritto di vivere una vita normale. Sono queste la precondizioni per i profondi cambiamenti di cui il Paese ha bisogno.
Non si rimette in piedi, non dimentichiamolo mai, un paziente morto.
Libertà fondamentali
Per mesi si è rinunciato responsabilmente a libertà fondamentali: ci vuole una scadenza
I tempi e i rischi
Fino a quando con una tendenza al «contagio zero» si potrà tenere il Paese in ginocchio?