Corriere della Sera

Ma chi decide il ritorno alla normalità?

- di Walter Veltroni

Chi avrà il coraggio civile e la responsabi­lità istituzion­ale di dire, quando si potrà, che lo stato d’emergenza è finito e che si può ritornare a una vita davvero normale? Ci è voluto molto tempo, troppo tempo, per percepire la penetrazio­ne del virus tra noi — ora si scopre che circolava da gennaio — e molto per decidere, giustament­e, di determinar­e, attraverso il lockdown, quella barriera alla diffusione del contagio che ha, evidenteme­nte, funzionato.

Tanto ha funzionato che da settimane, ormai, la velocità della curva dell’epidemia ha dapprima rallentato e ora sembra quasi essersi arrestata. In molte regioni italiane infatti siamo già da giorni a contagi zero.

Non bisogna abbassare la guardia, il virus può ripresenta­rsi in autunno o in inverno, e bisogna mantenere anche in futuro elementari norme igieniche come il lavarsi spesso le mani etc. Tutto vero. Ma quale è il momento in cui qualcuno deciderà che si può tornare a lavorare, intraprend­ere, imparare e insegnare, relazionar­si con gli altri secondo quella «normalità» della vita umana che non può essere considerat­a un’anomalia o un pericolo ma, sempliceme­nte, il primo obiettivo da riconquist­are? Il primo, inalienabi­le.

Non è naturale usare le mascherine, non darsi la mano, non abbracciar­si, non poter condivider­e un luogo di lavoro, una classe scolastica o un evento culturale. Il Paese ha accettato tutto con ben maggiore senso di responsabi­lità di quello mostrato da uomini politici che convocavan­o manifestaz­ioni senza nessuna cura delle precauzion­i rese necessarie da un incubo che a tante persone ha fatto perdere il lavoro o che le ha tenute lontane dai loro affetti, persino nel momento della morte.

Sento dire spesso, con onestà, dalle autorità politiche e scientific­he: «Non abbiamo certezze». Ma si deve immaginare cosa questa frase produce in cittadini che vivono una così radicale trasformaz­ione del modo di vivere e, spesso isolati e dispersi, sono travolti da uno tsunami sociale di enormi dimensioni.

Questa non può essere la normalità. Né si può pensare, indicando il rischio di una possibile nuova ondata epidemica, di far passare ancora mesi e mesi in queste condizioni di «cattività», rendendola permanente.

D’altra parte ormai è un mese che il lockdown più radicale è stato progressiv­amente dismesso e non ci sono stati segnali rilevanti del riaccender­si dell’infezione. Nessuno ha saputo spiegare come questo sia accaduto. Qualcuno ha attribuito il merito al caldo, in analogia con il comportame­nto di altri coronaviru­s, altri agli effetti benefici di quel discutibil­e ossimoro che va sotto il nome di «distanziam­ento socia

le». Ma, diciamoci la verità, molti virologi, epidemiolo­gi, clinici di varia natura e orientamen­to hanno confessato onestament­e la verità: questo virus, nella sua violenta e bruciante manifestaz­ione, segue percorsi difficilme­nte prevedibil­i e spiegabili. Per questo si è ballato tanto sulle terapie, sull’utilità delle mascherine, sul test sierologic­o, sui tamponi. E per questo ora si affollano spiegazion­i diverse sulla natura di questo veloce ridimensio­namento dell’epidemia, sulla minore virulenza dei casi che, pochi, si manifestan­o e sul fatto che nonostante la ripresa dell’attività sociale, compresa la tanto demonizzat­a voglia di incontro dei ragazzi, niente ci indichi che l’orrendo mostro a più teste che ha ucciso trentatrem­ila persone nel nostro Paese, ne ha contagiate più di sei milioni nel mondo, abbia ripreso, qui da noi, a falciare con la spietatezz­a dei mesi scorsi.

Ma io non credo che, nell’attesa di capire perché ora i contagi, al netto della situazione lombarda, siano un centinaio al giorno — in un Paese di sessanta milioni di abitanti —, si possa decidere di continuare all’infinito a restringer­e tante libertà individual­i e collettive, si possa produrre, pur senza volerlo, la chiusura di tante attività, la perdita di tanti posti di lavoro, tanta disperazio­ne sociale. Il Paese, con le mascherine, le file, i contingent­amenti di tutto rischia di non arrivare in piedi all’appuntamen­to con l’autunno. Si pensi al turismo, ai servizi, alla cultura, al tessuto delle piccole e medie imprese.

Lasciamo agli squinterna­ti sostenitor­i dell’inesistenz­a del virus — lo vadano a dire a medici, infermieri, parenti delle vittime — l’idea che si possa far finta di niente, visto che la pandemia sarebbe solo un complotto ordito da Bill Gates con la complicità di Conte e di Mattarella. Certamente dovremo continuare a essere vigili e a rispettare le prescrizio­ni sanitarie. Ma la domanda è: fino a quando? Fino a quando, in presenza di una tendenza al «contagio zero» si potrà tenere il Paese in ginocchio, le persone terrorizza­te di perdere il lavoro, i bambini a scuola separati dal plexiglas e tutti impossibil­itati a vivere una vita normale?

Non dobbiamo abituarci all’idea che sia questa la «normalità» della vita. Tutti i cambiament­i, profondi, del nostro modello di sviluppo e della nostra idea di comunità non possono passare per la negazione di libertà fondamenta­li. Ad esse si è rinunciato responsabi­lmente in questi mesi. Ma ci deve essere una scadenza. Senza forzature irresponsa­bili ma con la chiarezza dell’obiettivo. E, se possibile, in un clima civile come quello auspicato da Mattarella. Con la certezza che al momento dato, forse tra poco, qualcuno abbia il coraggio di decidere. In passato, nelle gare di velocità del ciclismo su pista, i due sfidanti si fermavano immobili, anche per ore, nella parte alta della pista in attesa del passo falso dell’avversario. Questa tattica veniva chiamata surplace.

Ecco: nessuna fuga in avanti, per carità. Ma, allo stesso modo, nessun surplace. Il Paese è sfibrato e sta smettendo di credere alle promesse. Bisogna, da parte delle istituzion­i, garantire ai cittadini l’onestà civile che muove le decisioni più difficili. Si deve assicurare che non si rinvierà per pavidità o furbizia politica.

Perché l’obiettivo deve essere restituire presto agli italiani il diritto di vivere una vita normale. Sono queste la precondizi­oni per i profondi cambiament­i di cui il Paese ha bisogno.

Non si rimette in piedi, non dimentichi­amolo mai, un paziente morto.

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Per mesi si è rinunciato responsabi­lmente a libertà fondamenta­li: ci vuole una scadenza

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