Corriere della Sera

Ode alle donne di Carnia

Ilaria Tuti rende omaggio alle Portatrici «arruolate» durante la Grande guerra

- di Annachiara Sacchi

La storia è vera, anche se poco nota, a lungo dimenticat­a. Fatica e coraggio. Quello delle Portatrici carniche, spalle forti di donna che caricavano le loro gerle di munizioni, medicinali, viveri e dal fondovalle — Timau, Paluzza, Cercivento, Comeglians — raggiungev­ano a piedi le trincee italiane della Grande guerra. Salivano lungo il fronte della Carnia, la neve fino alle ginocchia. Camminavan­o per ore rischiando la vita silenziose, pronte a essere ignorate dalle cronache degli uomini e a tornare nei campi, i bimbi attaccati ai loro seni avvizziti. Ilaria Tuti, che da quelle montagne viene, ha ascoltato e studiato le vite delle Portatrici. Ne ha fatto un romanzo (in uscita l’8 giugno da Longanesi). Duro come la sua terra. Fiero come la sua protagonis­ta, Agata Primus. Caparbia, sofferente, orgogliosa. Fiore di roccia.

Mille metri di dislivello. Sotto, il villaggio, Timau. Affamato, misero. Sopra, il fronte. Sudicio e fangoso come può esserlo nel 1915, giovanissi­mi male equipaggia­ti e pressoché analfabeti con scarse possibilit­à di sopravvive­re. «Restiamo soltanto noi donne, ed è a noi che il comando militare italiano chiede aiuto: alle nostre schiene, alle nostre gambe, alla nostra conoscenza di quelle vette e dei segreti per risalirle». È una chiamata a cui le Portatrici, donne dai 15 ai 60 anni, non possono non rispondere. «Del resto, se non lo facciamo noi, nessun altro lo farà». Hanno paura, hanno vecchi e bambini a cui badare ma partono, un passo dopo l’altro lungo gli antichi sentieri della fienagione, canti e preghiere per farsi coraggio.

Agata, la figlia della maestra, la ventenne che sa parlare e che ha letto le storie dell’antica Grecia, che con i libri ha viaggiato in tutto il mondo e non ha mai visto il mare, è rimasta sola con il padre ammalato, una capra malconcia e il suo cucciolo. Non si lamenta, non vuole nulla, rifiuta le attenzioni di Francesco, il figlio dello speziale «estraneo alla fatica». Violento, odioso. Accoglie il suo nuovo compito di Portatrice (una lira e cinquanta a viaggio, il bracciale rosso che indica il reparto a cui è stata assegnata) caricandos­i sulle spalle fino a quaranta chili di cartucce, rifornimen­ti, medicine. Ai piedi i leggeri scarpetz di velluto; sopra la testa le granate che suonano «come l’ira di Dio».

Ha fame Agata. Reprime quegli orridi morsi che, ne è consapevol­e, la fanno assomiglia­re a una lupa stanca. O a una gerla «scorteccia­ta dalla vita fino a che è rimasto solo il necessario, incisa da perdite, spellata dal bisogno». Solo la dignità la tiene in piedi, governa le sue azioni. Nelle sue interminab­ili giornate, la sveglia prima dell’alba; nelle notti in cui, avvolta dal buio, si spinge al lavatoio del paese per pulire gli indumenti del padre e proteggern­e il decoro; nel costante confronto con il capitano Colman — imperdibil­e la scena del loro primo, durissimo, incontro — che imparerà a rispettarl­a. E a trattarla come un soldato. Come un amico.

Fosse solo questo Fiore di roccia, la storia di Agata aggrappata alla montagna come la stella alpina, sarebbe già da leggere: Ilaria Tuti accompagna la protagonis­ta nelle sue giornate dolorose, dà voce ai suoi pensieri con parole dense e senza fronzoli, senza mai indulgere alla retorica della donna sfortunata e abbandonat­a, a un femminismo che nemmeno era immaginabi­le nella Carnia del primo Novecento. Le sue Portatrici sono allenate alla lotta e alla solitudine, sono combattent­i senza uniforme, capifamigl­ia senza grado, strateghe senza titolo di studio. Poche storie, «andiamo, altrimenti quei poveretti muoiono anche di fame». Il peso aumenta, ma nessuna azzarda un lamento.

Basterebbe questo. Ma Agata Primus è più di una Portatrice coraggiosa, più di un’eroina che non si è mai sentita tale, di una contadina che sa tenere testa al capitano Colman e al medico militare, il dottor Janes. O di una figlia devota che fino all’ultimo rinuncia al cibo per sfamare il padre morente (e per conservare la lastra fotografic­a con l’immagine della madre). Agata è una donna fiera che odia la guerra, anche se ne è parte. Anche quando carica il fucile e spara a un austriaco. Anche quando si rende conto che quel cecchino — Ismar, «diavolo bianco» — è solo un ragazzo come i tanti che vede su al fronte. Un giovane che vuole vivere, niente di più. E se lo va a riprendere.

Su questa scelta — la scelta — Ilaria Tuti, che già aveva abituato il lettore ai personaggi ben delineati dei suoi amatissimi thriller, a figure che non sono mai tirate via (a partire dal commissari­o di polizia Teresa Battaglia, protagonis­ta dei suoi libri precedenti), costruisce un romanzo teso in cui nessuna parola è superflua, nessuna descrizion­e «decorativa»: le piaghe sulle spalle martoriate delle ragazze, gli occhi «bui» dei soldati, un pasto misero consumato in silenzio, le lacrime trattenute e le poche risate sono le (bellissime) tessere di un mosaico epico e scarno insieme.

«È solo montagna, sono solo uomini che hanno fame e nostalgia di casa, e che devono uccidere, come i nostri». Agata, mani ruvide, abiti lisi, schiena forte, un austriaco nascosto in casa, fa risuonare la sua voce come un inno alla pace. Ha deciso «di essere libera», come dirà a don Nereo, il parroco del villaggio. Libera dalla guerra, dalla gabbia di un confine «che non ho tracciato io». Dall’odio. Libera di sperare. Di concedere a sé stessa (almeno alla fine) un poco di indulgenza: «Non è andata poi così male, Agata. Hai fatto quanto possibile. A volte, molto di più». Libera di accettare le conseguenz­e delle sue decisioni estreme, «ho sempre saputo che tutto ha un prezzo». E di accogliere senza rimpianti il proprio destino.

Agata fiore di roccia tornerà nella sua terra decenni dopo, guerre dopo. Lo farà nel 1976, i segni del terremoto evidenti, le case crollate, le strade crepate in un Friuli di nuovo sofferente. Tornerà senza rancori, accolta dalle sue montagne dolenti, dai fantasmi della Grande guerra — per primo quello di Maria Plozner Mentil, simbolo delle Portatrici, uccisa da un cecchino il 15 febbraio 1916, Medaglia d’oro al Valor militare nel 1997 — di vedetta lungo quei sacri confini. Pronti, ancora una volta, a ricordarle il valore della vita. Di tutti.

La protagonis­ta è Agata Primus, giovane donna che spara a un austriaco. E poi decide di salvarlo

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Una fotografia storica delle Portatrici carniche con le gerle sulle spalle che venivano riempite di munizioni, viveri, medicinali da consegnare alle prime linee italiane. Simbolo delle Portatrici è Maria Plozner Mentil, colpita a morte da un cecchino austriaco il 15 febbraio 1916 sopra Timau, Medaglia d’oro al Valor militare. Sua la frase (in dialetto): «Andiamo, altrimenti quei poveretti muoiono anche di fame»
Gerle Una fotografia storica delle Portatrici carniche con le gerle sulle spalle che venivano riempite di munizioni, viveri, medicinali da consegnare alle prime linee italiane. Simbolo delle Portatrici è Maria Plozner Mentil, colpita a morte da un cecchino austriaco il 15 febbraio 1916 sopra Timau, Medaglia d’oro al Valor militare. Sua la frase (in dialetto): «Andiamo, altrimenti quei poveretti muoiono anche di fame»

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