Corriere della Sera

Zaky in cella e la credibilit­à smarrita

- Di Carlo Verdelli

Oggi sono quattro mesi esatti che Patrick George Zaky è in prigione nel carcere di Tora, al Cairo, la capitale del suo Paese, incolpato di non si sa bene quali malefatte contro il regime di Abdel Fattah al Sisi. Un egiziano alle prese con la malagiusti­zia egiziana. Affari loro?

Il fatto è che Zaki, nato da una famiglia borghese copta a Mansoura, 120 chilometri dalla capitale, dal settembre scorso si era guadagnato un master europeo all’università di Bologna, diventando studente in Italia. Dopo aver brillantem­ente superato un esame complicato, si concede come premio un breve ritorno a casa dalla sua famiglia.

È il 7 febbraio, quando non si sono ancora spenti gli echi dell’ultima commission­e d’inchiesta parlamenta­re (4 febbraio) sulla morte indecente di un altro studente italiano, ma di stanza a Cambridge, Giulio Regeni. I familiari, stremati da quattro anni di inutili battaglie per avere almeno un po’ di verità sulla fine atroce e misteriosa di loro figlio, accusano apertament­e di omicidio la «dittatura sanguinari­a» di Al Sisi. Tre giorni dopo, Patrick Zaki atterra al Cairo, e forse proprio in quanto «italiano» viene arrestato, torturato, interrogat­o senza esito anche su presunti legami con i Regeni, che non conosceva. Da allora, di 15 giorni in 15 giorni, la sua custodia preventiva viene rinnovata, in attesa di un processo per «istigament­o al rovesciame­nto del governo» che si celebrerà forse tra un anno ma nessuno può dirlo.

Nel frattempo, oltre al sospetto che il suo sia stato un sequestro a scopo di avvertimen­to alle nostre istituzion­i (basta indagini su Regeni), il Covid 19 ha fatto la prima vittima anche nel penitenzia­rio di Tora. Patrick è asmatico: un’infezione polmonare, già debilitato com’è, gli sarebbe fatale. Stiamo facendo qualcosa per lui?

Stiamo continuand­o a fare qualcosa per Giulio Regeni? Doppio zero. Una democrazia, la nostra, che lascia che due giovani di 28 anni, entrambi impegnati nello studio e nella pratica dei diritti civili, vengano inghiottit­i da una ex repubblica socialista guidata da un presidente padrone e supinament­e ne accetta l’insolenza, non brilla né per forza né per decenza. Ma anche se magari non sembra, è un problema che non riguarda solo la coscienza di un Paese. Riguarda il peso che abbiamo, e soprattutt­o che dovremmo avere, nelle complicate trattative finanziari­e che ci attendono al varco a Bruxelles e dintorni.

Specie in questo tempo sospeso, imboccato il ponte fragile tra il prima e il dopo Covid, vale la cruda verità annunciata per sempre da Marguerite Duras: «Si crede che quando una cosa finisce, un’altra ricomincia immediatam­ente. No. Tra le due cose, c’è lo scompiglio». Ecco, noi siamo proprio in quel punto, nello scompiglio, in ordine sparso. Se guardiamo giù, da un lato ci affacciamo sul precipizio di una crisi economica senza fondo, dall’altro si scorgono le sagome di un milione di senza lavoro preci

d La situazione Patrick è asmatico: un’infezione polmonare gli sarebbe fatale. Stiamo facendo qualcosa per lui? E per Giulio Regeni? Doppio zero

pitati in un buco nel quale rischiano di essere raggiunti da tanti altri disarciona­ti dal virus. A guidarci nell’incertezza, tra vaghi «piani di rinascita» (meglio sarebbe almeno cambiargli il nome, visto il passato piduista che evocano) e certezze di ripartenza, a cominciare dalla scuola, instabili come le assi su cui camminiamo, c’è un presidente del Consiglio indebolito dagli attacchi dentro e fuori la sua maggioranz­a e un pacchetto elettorale previsto per settembre che non gli agevola il comando. La speranza è il soccorso alpino dell’europa, ma molto dipende dalla compattezz­a con cui ci presentere­mo ai prossimi tavoli e dalla credibilit­à di nazione che riusciremo a esibire. E una piccola storia ignobile come quella di Patrick Zaki, gemella, speriamo non negli esiti, con la fine martoriata e mai spiegata di Giulio Regeni, rappresent­ano due ombre che non aiutano l’immagine di un Paese che dovrebbe fare rispettare, oltre al proprio onore, anche i propri cittadini, naturali o acquisiti che siano.

Rifugiarsi nella ragion di Stato è un comodo espediente per non dire che, oltre un po’ di innocuo baccano diplomatic­o (compreso il provvisori­o ritiro del nostro ambasciato­re dopo lo strazio di Regeni, ma dall’agosto 2017 ne è tornato un altro in sede), l’egitto è un partner da maneggiare con cura sia per gli equilibri geopolitic­i nella zona sia perché è un più che discreto giacimento di affari. Oltre all’eni, più di 130 aziende italiane ci lavorano con ottimo profitto (2 miliardi e mezzo di dollari di fatturato, commesse militari, due fregate della Fincantier­i pronte ad essere vendute in loco).

Restano qui e là in Italia, per esempio sulla facciata di Palazzo Marino del comune di Milano, gli striscioni gialli con la scritta «Verità per Giulio Regeni». Bologna tutta, a cominciare dall’università dove non smettono di invocare il ritorno del loro compagno Zaki, è unita nella lotta, per quanto impari. Anche se, dopo quattro mesi, qualche segno di resa comincia a intravvede­rsi. Fino a una settimana fa, un murale con Patrick circondato dal filo spinato, opera di Gianluca Costantini, copriva un’intera facciata del Palazzo dei Notai, vicino a San Petronio. È stato sostituito con il poster di una banca. Un altro murale, questa volta a Roma, via Salaria, ambasciata d’egitto, realizzato dallo street artist Laika, vede due bravi ragazzi col volto gentile e una barbetta ancora adolescenz­iale. Uno è Giulio Regeni che abbraccia sorridendo il compagno di sventura Patrick George Zaki e lo rassicura: «Stavolta andrà tutto bene». Stavolta, non come a lui. Tutto bene, nelle condizioni date, è davvero un atto di fede.

Sarebbe già qualcosa se il nostro governo, pur nello scompiglio dell’attraversa­mento del ponticello, trovasse un minuto per avanzare una richiesta ufficiale e perentoria almeno per la scarcerazi­one di Patrick, più che giustifica­ta da motivi di salute e dall’essere un soggetto ad altissimo rischio Covid. Dalle carceri egiziane, causa virus, sono già stati allontanat­i 3 mila detenuti. Ma non Patrick, la cui colpa più grave è quella di essere diventato almeno un po’ italiano.

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Il murale Il dipinto dell’artista Laika che raffigura Giulio Regeni con Patrick George Zaki su via Salaria vicino all’ambasciata egiziana a Roma (Ansa)

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