Il bivio della destra italiana: darsi un’identità europea (in un governo più ampio) o assecondare i capipopolo?
L’impatto economico produrrà rischi di rivolta, serve un fronte comune democratico
È tempo di ritrovare il percorso interrotto con l’eclissi del partito di Gianfranco Fini
Forse non ne usciremo a destra. Ma di sicuro non ne usciremo senza la destra. La crisi sociale, della quale iniziamo già a sentire l’eco nelle piazze, può essere ribaltata in un’occasione di crescita collettiva grazie ai potenti flussi di risorse in arrivo. Ma per farcela serve l’italia tutta intera, al di fuori e al di là delle divisioni politiche. Non per inciucio: per buonsenso.
Sul fronte interno, sarebbe facile derubricare in folclore la gazzarra dei gilet arancioni del 2 giugno e la triste adunata romana di ultrà e neofascisti ieri al Circo Massimo. Facile, ma sbagliato. Perché da qui ai prossimi mesi l’impatto economico del Covid 19 produrrà mille motivi di rivolta, taluni strumentali, molti sacrosanti: e saranno guai serissimi se la politica non si mostrerà capace di un comune fronte democratico; se, anziché cercare in Parlamento la risposta a quei disagi, qualche leader si lascerà tentare (ancora) dall’ammiccamento ai capipopolo.
Sul fronte esterno, i vari, possibili recovery plan non saranno una cento metri ma una maratona; i miliardi dei recovery fund di cui verremo dotati andranno spalmati e spesi nell’arco degli anni. E questo imporrà alla nostra nazione di guelfi e ghibellini una condizione quasi inedita: la continuità nell’azione dello Stato; in soldoni, la certezza che chi salirà domani al potere non sprecherà il mandato per buttare a mare tutto ciò che ha costruito il predecessore. Sta in questa immaginazione condivisa e di lungo periodo, che poi passa attraverso due o tre riforme essenziali e un’idea dell’italia fedele ai principi della nostra Carta fondamentale, la vera garanzia che la comunità internazionale si aspetta.
E qui è davvero difficile che la nostra destra, o almeno parte di essa, non si senta a un bivio. Che partecipi in futuro a un esecutivo dalla base parlamentare più ampia, guidato magari da qualche figura di indiscusso prestigio europeo, o che rimanga opposizione all’attuale e fragile governo, poco conta in fondo: è invece vitale per tutti, persino per gli avversari, una sua piena (e rinnovata) tenuta costituzionale, qualcosa di più ben vasto della partecipazione a quegli «Stati generali» dell’economia che il premier Conte immagina.
Era scontata: ma parrebbe non esserlo più. Non a caso Silvio Berlusconi, che negli anni Novanta fu il mallevadore di una destra repubblicana capace di uscire dalla tenebra del suo passato, ha fatto su questo giornale una sortita proprio in concomitanza con la Festa della Repubblica, assumendo come proprie le parole di Sergio Mattarella su «l’unità morale, la condivisione di un unico destino, il sentirsi responsabili l’uno dell’altro» che devono essere limite e guida per la politica. Parlava certo a tutti, ma forse un po’ di più ai suoi (magari non amatissimi) eredi.
Bene comune e sforzo corale di maggioranza e opposizione (verso una base valoriale condivisa) sembrano quasi parole fuori contesto in un’italia dove una novantenne scampata ad Auschwitz è finita sotto scorta e una ragazza tornata da un sequestro in Kenya ha avuto un problema di tutela a causa dell’ondata di odio ideologico che ha sommerso entrambe. Il richiamo a un grande scatto, come quello che ci consentì di risollevarci nel dopoguerra, appare purtroppo quasi stravagante in un Paese dove nella nuova destra egemone c’è chi semina euroscetticismo divulgando, persino dai vertici delle commissioni parlamentari, l’illusione sudamericana che basti stampare moneta per battere la povertà. Certamente, ha ragione Berlusconi, la ricostruzione post-bellica non è avvenuta «in un quadro di unità politica nazionale»: ma né alla Dc né al Pci sarebbe mai saltato in mente di disonorare la nostra storia riducendo il 25 aprile, con una battuta da Bar sport, a «un derby tra fascisti e antifascisti».
La strada democratica della destra italiana non è stata facile. Non abbiamo avuto Churchill o de Gaulle quali eroi della resistenza al nazismo. Ma è tempo di ritrovare il percorso interrotto con l’eclissi del partito nuovo di Gianfranco Fini, che voleva «imparare ad aprirsi al centro» e che portò alla visita allo Yad Vashem e al riconoscimento del fascismo quale «male assoluto».
Persino il nazionalismo identitario, caro a parte della destra, può cambiare segno, come spiega la saggista israeliana Yael Tamir nel suo Why Nationalism: superando con la solidarietà la dicotomia (apparente) tra identità nazionale e più ampia identità europea. E ricordando all’europa le ragioni per le quali è nata: sostegno agli Stati più deboli, partecipazione di tutti al patto sociale. Parole finora astratte: che però, in un singolare cortocircuito della storia, la pandemia pare in grado di rendere infine materia vivente di una Unione cui neppure alla nuova destra italiana sarà facile dire di no.