«Donald perderà le prossime elezioni ma il trumpismo resterà nel Paese»
città (almeno) sono state teatro di manifestazioni, anche violente, negli Stati Uniti negli ultimi 12 giorni. La protesta si è poi diffusa in più di 40 Paesi mila riservisti
I soldati della Guardia Nazionale richiamati in servizio in 25 Stati americani per emergenza di ordine pubblico
«Donald Trump che viene rieletto sull’onda di una campagna law and order come Richard Nixon nel 1968? Non credo proprio: il Nixon di allora era un moderato centrista. Era Biden, non Trump».
In America è già cominciata la lunga volata verso le presidenziali di novembre: un voto condizionato prima dal coronavirus con le sue conseguenze anche economiche, e ora dalle proteste e i disordini per la questione razziale. David Frum, un conservatore che ha passato diversi anni alla Casa Bianca (era consigliere e speechwriter di George Bush), è stato sempre un critico severo di Trump alla cui presidenza ha dedicato due libri: Trumpocracy nel 2018 e il recentissimo Trumpocalypse. È convinto che l’america ne abbia abbastanza di lui, ma anche che le conseguenze del deterioramento delle istituzioni e del tessuto sociale verificatosi in questi anni continueranno a pesare: «Ha scardinato molti meccanismi creando precedenti assai pericolosi: l’impatto del trumpismo lo sconteremo anche dopo la sconfitta elettorale di Trump».
Nixon arrivò alla Casa Bianca promettendo legge e ordine dopo una stagione di disordini razziali. Per molti è un precedente importante. Lo ha detto anche il politologo Larry Sabato al Corriere.
«Io non la vedo così. Oggi abbiamo l’immagine di un Nixon “maledetto”, quello del Watergate. Nel 1968 non era così. Era il conservatore moderato, per otto anni vice di Eisenhower: un presidente amato, capo di uno Stato che interveniva nello sviluppo del Paese, facendo bene. La rete delle autostrade, ad esempio, la volle lui. Nixon puntava sull’ordine, è vero, ma pensava alle proteste continue contro la guerra del Vietnam, non alla questione razziale. Vada a vedere gli spot televisivi dell’epoca: in quelli di Nixon non c’è nemmeno un nero, ci sono solo barricate di giovani contestatori bianchi. Che non erano criminalizzati: Nixon se la prendeva anche con la repressione della polizia. Prometteva di pacificare, non di reprimere: non parlava di dominazione».
L’intervento di un gran numero di capi militari — generali in pensione, da Mattis a Mullen, da Dempsey a Kelly, e molti ancora in servizio — contro le dichiarazioni incendiarie di Trump e la sua minaccia di schierare l’esercito contro i dimostranti ha provocato reazioni un tempo impensabili: i progressisti applaudono i generali, mentre la Fox, megafono dei conservatori più duri, li tratta da golpisti: si oppongono agli ordini di un presidente eletto.
«I generali non fanno politica: difendono la loro apoliticità dalle pressioni di un presidente che li vuole coinvolgere nella zuffa elettorale. È facile da capire stando ai fatti. I militari hanno un problema esterno e uno interno. Intanto l’esercito è amato dalla gente perché difende il Paese all’estero mentre in Patria i soldati si vedono solo quando c’è da aiutare per un disastro naturale: un alluvione o la pandemia. Non vogliono rovinare il rapporto con la popolazione andando a contrastare manifestazioni di ragazzi che possono essere gestite dalle polizie. Certo, in caso di guerra civile
d Oggi abbiamo l’immagine di un Nixon maledetto, quello del Watergate. Nel 1968 non era così.
Era il conservatore moderato, un presidente amato
d Richard Nixon se la prendeva anche con la repressione della polizia. Prometteva di pacificare, non di reprimere: non parlava di dominazione
sarebbe diverso, ma non siamo a questo. Pensi che quando Trump voleva far sfilare a Washington carri armati e batterie di missili in una parata militare concepita come dimostrazione di forza, i generali hanno fatto di tutto per evitarlo. E ci sono riusciti. Hanno detto che i mezzi pesanti avrebbero sfondato le strade della capitale e che il Pentagono non aveva i soldi per pagare le riparazioni».
E il motivo interno?
«L’esercito è fatto al 40 per cento da gente di colore. L’integrazione razziale è essenziale e sta funzionando, con la ricerca di pari opportunità nelle carriere: pensi a Colin Powell. Per i generali Trump che soffia sul fuoco delle tensioni razziali non è un problema politico: è un problema di sicurezza nazionale, mina la compattezza delle forze armate».
Perché è ottimista sulle elezioni ma pessimista per il futuro dell’america?
«Credo che Trump avrà brutte sorprese non solo negli Stati in bilico ma anche nel Sud. Il Texas, ad esempio, sembra sicuro per lui. In realtà le grandi città, da Houston a Dallas, da San Antonio e Austin, sono democratiche. Solo Fort Worth e le zone rurali sono con lui. Basta poco per cambiare. Ma il dopo sarà duro. All’interno per la disoccupazione, ma anche all’estero: sarà difficile ricostruire la leadership internazionale degli Usa in un mondo nel quale il peso della Cina è aumentato».