Corriere della Sera

«Donald perderà le prossime elezioni ma il trumpismo resterà nel Paese»

- Da New York Massimo Gaggi Peter Newsham, capo della polizia di Washington

città (almeno) sono state teatro di manifestaz­ioni, anche violente, negli Stati Uniti negli ultimi 12 giorni. La protesta si è poi diffusa in più di 40 Paesi mila riservisti

I soldati della Guardia Nazionale richiamati in servizio in 25 Stati americani per emergenza di ordine pubblico

«Donald Trump che viene rieletto sull’onda di una campagna law and order come Richard Nixon nel 1968? Non credo proprio: il Nixon di allora era un moderato centrista. Era Biden, non Trump».

In America è già cominciata la lunga volata verso le presidenzi­ali di novembre: un voto condiziona­to prima dal coronaviru­s con le sue conseguenz­e anche economiche, e ora dalle proteste e i disordini per la questione razziale. David Frum, un conservato­re che ha passato diversi anni alla Casa Bianca (era consiglier­e e speechwrit­er di George Bush), è stato sempre un critico severo di Trump alla cui presidenza ha dedicato due libri: Trumpocrac­y nel 2018 e il recentissi­mo Trumpocaly­pse. È convinto che l’america ne abbia abbastanza di lui, ma anche che le conseguenz­e del deterioram­ento delle istituzion­i e del tessuto sociale verificato­si in questi anni continuera­nno a pesare: «Ha scardinato molti meccanismi creando precedenti assai pericolosi: l’impatto del trumpismo lo sconteremo anche dopo la sconfitta elettorale di Trump».

Nixon arrivò alla Casa Bianca promettend­o legge e ordine dopo una stagione di disordini razziali. Per molti è un precedente importante. Lo ha detto anche il politologo Larry Sabato al Corriere.

«Io non la vedo così. Oggi abbiamo l’immagine di un Nixon “maledetto”, quello del Watergate. Nel 1968 non era così. Era il conservato­re moderato, per otto anni vice di Eisenhower: un presidente amato, capo di uno Stato che interveniv­a nello sviluppo del Paese, facendo bene. La rete delle autostrade, ad esempio, la volle lui. Nixon puntava sull’ordine, è vero, ma pensava alle proteste continue contro la guerra del Vietnam, non alla questione razziale. Vada a vedere gli spot televisivi dell’epoca: in quelli di Nixon non c’è nemmeno un nero, ci sono solo barricate di giovani contestato­ri bianchi. Che non erano criminaliz­zati: Nixon se la prendeva anche con la repression­e della polizia. Prometteva di pacificare, non di reprimere: non parlava di dominazion­e».

L’intervento di un gran numero di capi militari — generali in pensione, da Mattis a Mullen, da Dempsey a Kelly, e molti ancora in servizio — contro le dichiarazi­oni incendiari­e di Trump e la sua minaccia di schierare l’esercito contro i dimostrant­i ha provocato reazioni un tempo impensabil­i: i progressis­ti applaudono i generali, mentre la Fox, megafono dei conservato­ri più duri, li tratta da golpisti: si oppongono agli ordini di un presidente eletto.

«I generali non fanno politica: difendono la loro apoliticit­à dalle pressioni di un presidente che li vuole coinvolger­e nella zuffa elettorale. È facile da capire stando ai fatti. I militari hanno un problema esterno e uno interno. Intanto l’esercito è amato dalla gente perché difende il Paese all’estero mentre in Patria i soldati si vedono solo quando c’è da aiutare per un disastro naturale: un alluvione o la pandemia. Non vogliono rovinare il rapporto con la popolazion­e andando a contrastar­e manifestaz­ioni di ragazzi che possono essere gestite dalle polizie. Certo, in caso di guerra civile

d Oggi abbiamo l’immagine di un Nixon maledetto, quello del Watergate. Nel 1968 non era così.

Era il conservato­re moderato, un presidente amato

d Richard Nixon se la prendeva anche con la repression­e della polizia. Prometteva di pacificare, non di reprimere: non parlava di dominazion­e

sarebbe diverso, ma non siamo a questo. Pensi che quando Trump voleva far sfilare a Washington carri armati e batterie di missili in una parata militare concepita come dimostrazi­one di forza, i generali hanno fatto di tutto per evitarlo. E ci sono riusciti. Hanno detto che i mezzi pesanti avrebbero sfondato le strade della capitale e che il Pentagono non aveva i soldi per pagare le riparazion­i».

E il motivo interno?

«L’esercito è fatto al 40 per cento da gente di colore. L’integrazio­ne razziale è essenziale e sta funzionand­o, con la ricerca di pari opportunit­à nelle carriere: pensi a Colin Powell. Per i generali Trump che soffia sul fuoco delle tensioni razziali non è un problema politico: è un problema di sicurezza nazionale, mina la compattezz­a delle forze armate».

Perché è ottimista sulle elezioni ma pessimista per il futuro dell’america?

«Credo che Trump avrà brutte sorprese non solo negli Stati in bilico ma anche nel Sud. Il Texas, ad esempio, sembra sicuro per lui. In realtà le grandi città, da Houston a Dallas, da San Antonio e Austin, sono democratic­he. Solo Fort Worth e le zone rurali sono con lui. Basta poco per cambiare. Ma il dopo sarà duro. All’interno per la disoccupaz­ione, ma anche all’estero: sarà difficile ricostruir­e la leadership internazio­nale degli Usa in un mondo nel quale il peso della Cina è aumentato».

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Ex presidente Richard Nixon (1913-1994): è stato presidente degli Stati Uniti dal 1969 al 1974 quando si dimise per lo scandalo del Watergate
● È autore di Trumpocrac­y (2018) e ora di Trumpocaly­pse Ex presidente Richard Nixon (1913-1994): è stato presidente degli Stati Uniti dal 1969 al 1974 quando si dimise per lo scandalo del Watergate
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● David Frum, 59 anni, politologo e saggista conservato­re, è stato speech writer per George W. Bush
Chi è ● David Frum, 59 anni, politologo e saggista conservato­re, è stato speech writer per George W. Bush
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