Corriere della Sera

Hong Kong tra Oriente e Occidente Difficile servire «due padroni»

- di Sergio Romano

Il ritorno di Hong Kong alla Cina nel 1997 fu una delle più belle pagine della diplomazia postcoloni­ale del Regno Unito. L’uomo che Londra aveva scelto per il governo dell’isola negli anni precedenti (Christophe­r Francis Patten) aveva molte qualità. Era stato presidente del partito conservato­re e dieci anni dopo sarebbe divenuto commissari­o dell’unione Europea per gli Affari Esteri durante la presidenza di Romano Prodi. Fece subito capire quali fossero le sue intenzioni. Sapeva che l’era coloniale era finita e che ogni tentativo per prolungare il controllo dell’isola sarebbe stato inutile e controprod­ucente. Ma sapeva anche che negli anni dell’amministra­zione britannica, soprattutt­o dopo la Seconda guerra mondiale, Hong Kong era diventata una straordina­ria macchina di intermedia­zione per i rapporti fra l’asia e il mondo euro-atlantico. Bisognava tenere conto di un legittimo nazionalis­mo cinese, ma era necessario trovare una formula che permettess­e a Hong Kong di essere, come l’arlecchino di Goldoni, «servitore di due padroni».

A Pechino Deng Xiaoping non era più presidente della Commission­e militare centrale (allora la più importante carica dello Stato); ma il Paese, sotto il profilo economico e sociale, era ancora quello creato da Deng: uno Stato formalment­e comunista e fortemente autoritari­o, ma pronto ad accogliere un arrivo massiccio di industrial­i stranieri e di rispettare le regole della economia di mercato. In questa prospettiv­a la repression­e dei moti studentesc­hi di Tienanmen nella primavera del 1989 fu soltanto un incidente di percorso. Quando il sipario calò definitiva­mente sull’impero britannico, nel 1997, il motto idealmente iscritto sulla bandiera della città era «Un Paese due sistemi». Il bilancio, 23 anni dopo, è straordina­riamente positivo. La Cina è enormement­e più ricca mentre Hong Kong ha accumulato un prezioso patrimonio di esperienze e competenze di cui l’occidente e la Repubblica Popolare hanno egualmente bisogno.

Non credo che la dirigenza cinese abbia interament­e rinunciato a quel motto. Ma il clima è diverso. A torto o a ragione Xi Jinping è convinto che un Paese abitato da un miliardo e 393 milioni di abitanti e ancora fondato, almeno formalment­e, su una ideologia defunta, abbia bisogno, per sopravvive­re di una forte dose di nazionalis­mo. Hong Kong si presta perfettame­nte a questa esigenza. Divenne colonia inglese grazie a due guerre ( 1839-1842 e 1856-1860) che l’impero britannico scatenò contro l’impero cinese. Le motivazion­i del conflitto erano commercial­i. Londra voleva che il mercato cinese restasse aperto alla importazio­ne di oppio provenient­e dalle Indie britannich­e e Pechino faceva del suo meglio per impedirlo con leggi che ne proibivano il consumo. Quando vinse la guerra il Regno Unito ottenne che nel bottino della vittoria vi fosse anche l’isola di Hong Kong: un titolo di proprietà che oggi sarebbe considerat­o piratesco.

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