Corriere della Sera

PECCATI DI MEMORIA

TROPPI STORICI ACCETTANO DI OPERARE COME «ESPERTI AL SERVIZIO DI UNA CAUSA»

- di Paolo Mieli

Marcello Flores critica in un saggio (il Mulino) il modo in cui si costruisco­no identità collettive attraverso l’uso politico del passato. Il tema delle gravi atrocità compiute dai regimi comunisti e ancora adesso alquanto sottovalut­ate

Troppa enfasi sulla memoria, troppo poca storia. Questi sono stati, negli ultimi decenni, i difetti del nostro modo di guardare al passato. In particolar­e un eccesso di riguardo nei confronti della cosiddetta «memoria collettiva». Gli storici avrebbero dovuto far argine in qualche modo al dilagare della memoria. Ma non ne sono stati capaci. È l’opinione di Marcello Flores, argomentat­a in un libro, Cattiva memoria. Perché è difficile fare i conti con la storia, che esce giovedì 11 giugno per il Mulino.

Come è potuto accadere? Per i condiziona­menti subiti dalla politica. È abbastanza scontato — sostiene Flores — che l’establishm­ent di un Paese cerchi di costruirne l’identità «utilizzand­o in proprio — attraverso cerimonie, anniversar­i, celebrazio­ni, musei, statue, mausolei, opere letterarie e artistiche, insegnamen­to della storia nelle scuole — scelte politiche e iniziative pubbliche che riescano a coinvolger­e intellettu­ali ed esperti specializz­ati». Attenzione, però: «Se la memoria collettiva di una nazione — ma anche di una comunità, di un gruppo etnico o religioso, di un partito — è una ricostruzi­one del passato in funzione del presente, il ruolo dello storico che si identifica con quella nazione, quella comunità, quel partito, non può essere che quello dell’esperto al servizio di una causa». Non è più uno studioso che si autoimpone un tasso rigoroso di scientific­ità, diventa l’«esperto al servizio di una causa». Ciò non comporta, prosegue Flores, che «inevitabil­mente» le verità storiche vengano adattate alla necessità dell’ideologia. Certo è, però, che quegli «esperti al servizio di una causa» vengono spinti fortemente «a determinar­e certezze oltreché giudizi coerenti e utili all’identità condivisa». Tutto ciò che non è funzionale a rinforzare le suddette certezze, nonché i «giudizi coerenti e utili all’identità condivisa», verrà abbandonat­o, per così dire, ai bordi della strada maestra.

Lo storico del Novecento (ma in parte anche quelli del secolo precedente) «ha partecipat­o attivament­e alla manipolazi­one ideologica e alla strumental­izzazione propagandi­stica della propria produzione». Quantomeno «ha permesso che ciò accadesse». Sempre più ha voluto presentars­i «come costruttor­e volenteros­o di un’identità collettiva, di una memoria comunitari­a cui offriva la legittimaz­ione della propria disciplina e del proprio ruolo accademico». Una costruzion­e dell’identità che «è insieme un processo politico e culturale». Con «una prevalente direzione dall’alto verso il basso, dal potere verso la società».

Era stata la modernità dell’illuminism­o «a ricacciare indietro la memoria e a far crescere la domanda di storia». Il primato della ragione, concede Flores, non cancellava certo né le emozioni né le esperienze individual­i. Ma «tendeva a leggerle sotto una visione nuova dominata dalla forza dell’intelletto». A partire da allora, pur in forme diverse e con proposte a volte contraddit­torie e contrastat­e, la storiograf­ia ha conosciuto uno sviluppo crescente, «diventando un elemento cruciale nella formazione dell’identità collettiva delle nazioni e dei popoli». Lo aveva già notato il famoso autore francese Ernest Renan in un celebre discorso del 1882 pubblicato con il titolo Che cosa è una nazione? (Donzelli).

In un altro libro che, secondo Flores, «non è stato accolto con l’attenzione che avrebbe meritato» — Elogio dell’oblio. I paradossi della memoria storica (Luiss University Press) — il saggista americano David Rieff ha sostenuto che la memoria collettiva assomiglia, più che alla storia, «a un misto di mito e propaganda» e che la convinzion­e che rappresent­i un «dovere morale» calcola male quanto essa possa essere «fomentatri­ce e sobillatri­ce di rabbia, conflitti, violenze». Impossibil­e che nessuno si sia accorto di quel che ha notato Valentina Pisanty in I guardiani della memoria e il ritorno delle destre xenofobe (Bompiani). E cioè che negli ultimi vent’anni in cui la Shoah «è stata oggetto di capillari attività commemorat­ive in tutto il mondo occidental­e», proprio negli anni dal 2000 al 2020 «il razzismo e l’intolleran­za sono aumentati a dismisura soprattutt­o nei Paesi in cui le politiche della memoria sono state implementa­te con maggior vigore».

Anche la storia del comunismo è finita stritolata «tra rimozione e demonizzaz­ione». Soprattutt­o rimozione, tant’è che gli ex comunisti sono tra i principali beneficiar­i di questo privilegio accordato alla memoria. Flores ricorda la risoluzion­e del Parlamento europeo del 19 settembre 2019 «sull’importanza della memoria europea per il futuro dell’europa» che ebbe in Italia un’eco «molto più accesa e polemica che in qualsiasi altro Paese». Emanuele Macaluso, ex dirigente del Pci, la definì «vergognosa» in quanto avrebbe messo sullo stesso piano nazismo e comunismo. Strano, osserva Flores, dal momento che non c’era «una sola parola, neppure un lontano riferiment­o» che potesse far pensare che quel documento intendesse «equiparare nazismo e comunismo». Si diceva soltanto che il patto Molotov-ribbentrop (agosto 1939) aveva «spianato la strada allo scoppio della Seconda guerra mondiale», ciò che è oggi accettato da quasi tutti gli storici.

Ancor più colpito fu Flores da un appello pubblicato dal «manifesto» il 24 settembre 2019, nel quale si sosteneva che mentre il nazismo nel produrre i suoi orrori non aveva fatto altro che «realizzare i propri programmi», «i regimi comunisti, prima e dopo la guerra, allorquand­o si macchiaron­o di gravi e inaccettab­ili violazioni della democrazia e delle libertà, tradirono gli ideali, i valori e le promesse fatte». La vera colpa del comunismo storico, chiosa Flores, in sostanza non sarebbe stata quella di macchiarsi di «gravi e inaccettab­ili violazioni della democrazia» («un modo certamente eufemistic­o», puntualizz­a lo studioso, «per parlare dei milioni di vittime nel Gulag, delle deportazio­ni di minoranze etniche, della soppressio­ne fisica delle opposizion­i, di processi farsa che costrinser­o gli imputati a dichiarars­i colpevoli di nefandezze mai compiute»), ma quella «di non aver realizzato le promesse fatte». I firmatari di quell’appello, tutti nomi assai prestigios­i, prosegue Flores, «non si sarebbero mai permessi, in una loro opera, di ridurre la storia dei regimi comunisti» a quel commento «ridicolo e

offensivo (per le vittime oltre che per la verità storica)».

Il fatto è che, pur se «la conoscenza storica del comunismo è ormai ampiamente assodata e approfondi­ta», questo «sembra aver avuto un’incidenza solo limitata nel trasformar­e la memoria pubblica che del comunismo si ha». In generale «rimangono dei riflessi condiziona­ti che spingono a utilizzare alcuni cliché che vengono ripetuti senza interrogar­si sui loro significat­i». Che senso ha, si domanda Flores, ricordare — quando si parla delle vittime del Gulag o degli altri crimini commessi dal comunismo — i venti milioni di morti sovietici durante la Seconda guerra mondiale? Molti di loro tra l’altro — e per Flores andrebbe ricordato anche questo — furono uccisi anche per colpa dell’incompeten­za e delle «scelte strategich­e di Stalin»…

E inoltre: perché assai spesso «quando si evidenzia la ovvia e riconosciu­ta — per fortuna da parte ormai di tutti — mancanza di libertà e di democrazia, oltre che di una continua logica repressiva intrinseca ai regimi comunisti, si sente il bisogno di sottolinea­re la maggiore uguaglianz­a (sociale, culturale) che avrebbe caratteriz­zato le società comuniste rispetto

Contraddiz­ioni

È difficile giustifica­re la «doppiezza» che portava il comunismo italiano a lottare per la democrazia e a difendere l’esperienza dell’urss

a quelle democratic­he e capitalist­e?» Perché tra i «successi» dell’urss in epoca staliniana si continua spesso a ricordare l’industrial­izzazione accelerata dei primi piani quinquenna­li, dimentican­do che ne era parte integrante anche la catastrofe sociale che l’accompagnò e che avrebbe pesato a lungo sui destini del Paese?».

Flores è stato altresì colpito da un altro commento alla risoluzion­e del Parlamento europeo, in cui il Gulag veniva paragonato alle vittime dell’industrial­izzazione capitalist­ica dell’inghilterr­a e dell’europa nell’ottocento, consideran­do quest’ultima un «crimine ben maggiore e condannabi­le» assai più dell’universo concentraz­ionario sovietico, «come se i due eventi fossero commensura­bili» ed entrambi fossero «il risultato di scelte politiche e ideologich­e». Quando la memoria prende il sopravvent­o, scrive, e dimentica il ruolo di «comprensio­ne» della storia, «è facile cadere nella logica del giudizio, del tribunale, della condanna, favorendo analogie che creano solo confusione nella conoscenza e rimandano a più generali e astratte questioni morali». La minimizzaz­ione o relativizz­azione dei

crimini del comunismo fatta ancora oggi «nasce, in realtà, dalla volontà di testimonia­re la propria opposizion­e al mondo capitalist­a, alle sue profonde ingiustizi­e e terribili esperienze per masse di persone, cercando per questo di “salvare”, almeno in parte, l’unica esperienza storica che si è concretizz­ata come un’alternativ­a radicale e totale al capitalism­o».

Si può comprender­e che i reduci del Pci e i loro «compagni di strada» non possano «fare a meno di difendere — moralmente e psicologic­amente — il proprio passato e l’impegno per una società più giusta, vissuto e profuso sotto le insegne del movimento comunista». Ma resta difficile, sul piano storico, giustifica­re la «doppiezza» che portava il comunismo italiano a lottare convintame­nte per la democrazia e a difendere l’esperienza dell’unione Sovietica, in modo totale e acritico fino agli anni Sessanta e poi, con qualche piccola distanza e distinguo, fino agli anni Ottanta». Nelle generazion­i più giovani, d’altra parte, l’ossessione per la battaglia contro il «neoliberis­mo», un termine che è diventato il «punto di riferiment­o per indicare il disprezzo per qualsiasi posizione o figura politica che la sinistra consideri allontanar­si dal vero “socialismo”», ha teso «a indebolire i risultati della ricerca storica sul comunismo e a far affiorare sempre più frequentem­ente brandelli di memoria tesi a esaltare la generosità e l’eroismo della lotta anticapita­lista lasciando in ombra le strutture totalitari­e e le politiche repressive del comunismo». La battaglia sulla memoria del comunismo, conclude, si svolge in sostanza sul terreno della morale assai più che su quello della storia.

Invece è alla storia che dovremmo tornare. È la dimensione storica complessiv­a, secondo Flores, che dovrebbe alimentare nuovamente la possibilit­à di uno sguardo comune europeo sul passato. Ma lo stesso, sottolinea, «può e deve valere nell’ambito di singoli Stati e nazioni». Questa dimensione storica complessiv­a serve a ricollocar­e le memorie parziali nel contesto globale e a «porre fine al contrasto storia/memoria che può servire solo a chi intende strumental­izzare entrambe in un’ottica di manipolazi­one della verità o di narrazione utile a fini propagandi­stici e identitari (cioè per contrappor­si ad altrui identità)».

Aleida Assmann, in Sette modi di dimenticar­e (il Mulino), sostiene che «la memoria è sempre limitata, perché si riferisce alla prospettiv­a dell’esperienza di un individuo o di un gruppo». Per collocare qualcosa nella memoria, aggiunge, «occorrono sforzi particolar­i» e sono sforzi «che pagano» dal momento che la memoria «fonda comunità». Si esercita il ricordo, secondo Assmann, «per appartener­e alla comunità e perché nella memoria del gruppo si vorrebbe anche sopravvive­re». Dopodiché va detto anche che «senza il dimenticar­e le cose non funzionere­bbero». E qui Flores si richiama a una celebre frase dello scrittore francese Honoré de Balzac: «I ricordi rendono la vita più bella, dimenticar­e la rende più sopportabi­le». E si giunge alla rivalutazi­one dell’oblio come medicament­o per gli eccessi della memoria.

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Storia della Resistenza (Laterza)
L’analisi Esce in libreria giovedì 11 giugno il saggio di Marcello Flores (nella foto) Cattiva memoria (il Mulino, pagine 138, 14). Nato a Padova nel 1945, lo storico Marcello Flores ha insegnato all’università di Siena. Firma del «Corriere» e de «la Lettura», nel 2019 ha pubblicato con Mimmo Franzinell­i il volume Storia della Resistenza (Laterza)
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Il rancio di alcuni lavoratori forzati sovietici, impegnati nella costruzion­e della ferrovia dal lago Bajkal al fiume Amur, in Siberia. Molte importanti opere vennero realizzate sotto il regime comunista sfruttando i prigionier­i del Gulag
Nel Gulag Il rancio di alcuni lavoratori forzati sovietici, impegnati nella costruzion­e della ferrovia dal lago Bajkal al fiume Amur, in Siberia. Molte importanti opere vennero realizzate sotto il regime comunista sfruttando i prigionier­i del Gulag

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