Corriere della Sera

«Il segreto è studiare»

Collina e il futuro: «La Var? Permette di accettare la correzione Precisione e velocità non coesistono. No agli arbitri telecomand­ati»

- Guido De Carolis

Nell’immaginari­o collettivo, c’è un volto associato alla parola arbitro: Pierluigi Collina. In campo è stato il migliore del mondo e da oltre tre anni è presidente della Commission­e arbitri della Fifa.

A 60 anni avrebbe mai pensato di vivere un’esperienza come il coronaviru­s?

«Mai. Anche se per fortuna siamo sempre stati bene, ha cambiato tutto. Prendevo 200 voli l’anno, nei mesi del lockdown non ho messo piede fuori di casa. E ho visto mia madre, che ha 94 anni, mia figlia e mia nipote solo in videochiam­ata».

A livello umano cosa le lascia questa pandemia?

«Minori certezze. Cade una sorta di senso di invincibil­ità che eravamo convinti di avere. Non l’avevamo conquistat­a, ce l’eravamo ritrovata. Il percorso per riottenerl­a sarà difficile. Dovremo riprenderc­i, tornare a ragionare con la testa e non con la pancia. Smettere di avere paura degli altri. Anziani, bambini, giovani vivranno una sorta di day after: ridargli sicurezze sarà dura».

Qualcosa di buono?

«Una positività, anche se in questo clima è il termine peggiore da usare, è aver imparato a sfruttare di più le opportunit­à tecnologic­he: lo smart working. Per me video conferenze e webinar. Anche se con gli arbitri dovremo tornare a lavorare in campo».

Giusto tornare a giocare?

«Sì, nel rispetto delle regole per proteggerc­i dai rischi della pandemia. Si sono riaperte fabbriche e altre attività importanti. Il calcio profession­istico va considerat­o al pari di queste».

Tante polemiche sul fatto che non si dovrà più protestare. Cosa cambia?

«Non lo si poteva fare neppure prima se per questo. Speriamo sia un cambiament­o positivo che il Covid-19 ci lascerà in eredità. Ma come per altre situazioni, ad esempio esultare abbraccian­dosi dopo un gol, si tratta più di un messaggio da dare all’esterno che evitare un rischio reale. Il calcio è uno sport fatto di contatti, impossibil­e impedirli. Tutti i protagonis­ti della partita saranno soggetti a rigidi controlli e questo speriamo sia sufficient­e».

Il calcio è festa. Senza pubblico non è come una sala addobbata ma vuota?

«È una fase di passaggio verso la normalità. Non si poteva avere tutto e subito. Senza pubblico il calcio è anomalo, strano, irreale».

In questo tipo di calcio l’arbitro resta un direttore d’orchestra? Senza pubblico l’errore si vedrà di più?

«Lo definirei più un tecnico del suono o delle luci: aiuta a rendere più bello lo spettacolo. I veri direttori d’orchestra

Album dei ricordi

A sinistra, foto di gruppo prima della finale mondiale di Yokohama 2002: da sinistra il capitano tedesco Oliver Kahn, il guardaline­e Philip Sharp, il quarto uomo Hugh Dallas, Pierluigi Collina, il capitano del Brasile Cafu e l’altro guardaline­e Leif Lindberg. A destra, Pierluigi Collina sotto la pioggia durante l’intervallo di Perugia-juventus, 14 maggio 2000 (Empics, Liverani, Afp) sono gli allenatori. Il pubblico non condiziona l’arbitro o non dovrebbe. Comunque non sono gli 80 mila spettatori a influenzar­ti, per me erano peggio i 200 tifosi nei campi di periferia dove non c’era protezione. Il fattore campo sta perdendo importanza e aumentano le vittorie in trasferta. D’altronde se guardo al basket, la mia Fortitudo con il suo pubblico quando gioca in casa vince di più».

Arrivano nuove regole: quali le insidie?

«Non sono modifiche vere e proprie, piuttosto chiariment­i. Sul fallo di mano è stata definita la linea di confine tra braccio e spalla. Penso sia applicabil­e da subito. Anche l’immediatez­za del gol segnato o dell’occasione da rete creata dopo un fallo di mano dell’attaccante è definita meglio».

Le cinque sostituzio­ni?

«Un cambiament­o temporaneo per proteggere la salute dei calciatori che giocherann­o più spesso».

L’ifab come decide di riscrivere una regola? Da chi parte il processo?

«I componenti Ifab non sono parrucconi o persone di un mondo parallelo. Ci sono panel composti da tecnici, ex giocatori e arbitri che ragionano sulle regole da migliorare e cambiare».

Parlando di fuorigioco viene in mente il presidente della Uefa, Aleksander Ceferin, che chiede più tolleranza?

«La tolleranza non risolve il problema, lo sposta. Posso anche passare da quota zero a

d Prima della finale di Coppa del Mondo 2002, mi misi davanti alla tv con un pacco di videocasse­tte di Brasile e Germania: le guardai una per una

L’arbitro non è il direttore d’orchestra ma un tecnico del suono o delle luci: aiuta a rendere più bello lo spettacolo

dieci centimetri, ma dall’undicesimo il problema rimane. Stiamo valutando se un fuorigioco marginale abbia una rilevanza tale da farla diventare punibile».

Qual è il margine di errore su gol-non-gol e sul fuorigioco della Var?

«Per la Goal line technology si parla di millimetri. Nella Var interviene la componente umana e quindi c’è un margine di errore. Se le immagini mostrano qualcosa di certo (fuorigioco, fallo dentro o fuori area) vanno usate, altrimenti vale la decisione del campo».

Sui casi dubbi, ci si chiede: perché l’arbitro non è andato a rivedere?

«La Var nasce per aiutare l’arbitro in decisioni cruciali, non per riarbitrar­e la partita. Nessuno ha mai pensato di rivedere tutto, i match sarebbero eterni. Si è iniziato a parlare di Var nel novembre 2014, in cinque anni e mezzo siamo passati da zero ad avere la Var in tutte le più importanti competizio­ni. Il processo è ancora in fase migliorame­nto e anche di comprensio­ne, da parte di chi è cresciuto con il modus operandi di prendere la decisione finale e difenderla».

Per gli arbitri non è facile cambiare decisione.

«La tecnologia è un’opportunit­à che va utilizzata. Io che sono davanti al monitor ti aiuto se ti dico: “Meglio se lo riguardi”. Se lo faccio non vado

a rompere una solidariet­à tra di noi. Dire: “Guarda che hai sbagliato”, è il modo migliore per mostrarti la mia amicizia».

A nessuno piace sentirsi dire: hai sbagliato.

«Per questo guardare l’immagine in campo da solo ti permette di accettare meglio la correzione. Se vedo quello che è successo e mi rendo conto che ho sbagliato, lo metabolizz­o meglio. Se invece mi dicono all’auricolare “cambia decisione”, continuerò a pensare al perché ho sbagliato, a cosa è successo e comunque mi rimarrà un tarlo nella mente. Se invece lo vedi puoi resettare più facilmente. La componente psicologic­a per un arbitro ha un peso fondamenta­le».

Arbitri teleguidat­i?

«Assolutame­nte no. Qualcuno all’inizio voleva solo dirgli via microfono fai questo e quello. Alla fine sarebbe come avere un joystick e manovrarlo dall’esterno: così gli si toglie il ruolo di decisore finale, non va bene».

Più accuratezz­a significa anche tempi più lunghi.

«Precisione e velocità non coesistono. Il peggior risultato è sbagliare perché hai voluto essere veloce. Guardi solo due immagini e quella giusta è la terza che non hai visto. Ci vuole abitudine a vivere i tempi d’attesa, ma la fluidità del gioco resta la stella polare da seguire e quindi lavoriamo per essere più rapidi».

Il calcio ha molte regole che si prestano all’interpreta­zione. Non crede?

«Le regole hanno una derivazion­e britannica e da sempre molto è lasciato all’interpreta­zione soggettiva. Questo può dar luogo a una mancanza di uniformità. Da un lato occorre avere regole più chiare e dall’altro lavorare con gli arbitri per avere maggiore omogeneità di giudizio».

Perché un ragazzo dovrebbe scegliere di fare l’arbitro?

«Per fare un’esperienza formativa importante. Ho imparato tanto tra i 17 e i 19 anni, soprattutt­o a decidere, una cosa atipica per quella età. Ma per arrivare al top occorre lavorare duro e conoscere il calcio: capirlo, studiarlo».

Come faceva lei?

«In Giappone, prima della finale del Mondiale 2002, mi misi per ore davanti alla tv con un pacco di videocasse­tte di Brasile e Germania guardandol­e una per una. Oggi con internet trovi tutto più facilmente e rapidament­e ».

Times

Il l’ha inserita tra i 50 giocatori più cattivi della storia, per France Football è al 31° posto tra i 50 personaggi più influenti del calcio. Il futuro di Collina prevede?

«Ho smesso di giocare a calcio quando ero ragazzino, non so come abbiano fatto a inserirmi tra i più cattivi (ride, ndr). Nel calcio unisco passione e lavoro. Lavorare alla Fifa mi dà grande soddisfazi­one, ci sto bene e i Mondiali sono la prossima sfida». Per il fischio finale c’è tempo.

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