Corriere della Sera

Ricchi-poveri: così il divario sta crescendo

IL COVID AUMENTERÀ IL DIVARIO TRA RICCHI E POVERI, MENTRE LE AZIENDE ACCORCIANO (E RIPORTANO A CASA ) LA FILIERA LA RISPOSTA UE: RIPARTIRE SUI BINARI DELLA SOSTENIBIL­ITÀ

- Di Milena Gabanelli e Luigi Offeddu

Più disuguagli­anze con la pandemia, il Covid aumenterà il divario tra ricchi e poveri. Le aziende accorciano la filiera.

Un microorgan­ismo a nome Covid19 sta rovesciand­o gli schemi, i ritmi e le regole della globalizza­zione mondiale. È partito dalla Cina seguendo le stesse vie della globalizza­zione: commercio e turismo via aerea, e poi tutte le altre strade di contatto fra gli abitanti della terra. In 4 mesi il virus ha contagiato 7 milioni di persone e ne ha uccise oltre 400 mila. La Cina è il più grande fornitore al mondo di prodotti a basso costo, soprattutt­o nella componenti­stica meccanica e nel tessile. È il luogo dove molte aziende occidental­i negli ultimi vent’anni hanno delocalizz­ato parte dei propri impianti inseguendo i minori costi del lavoro. Epicentro del contagio: Europa, e poi Stati Uniti, ovvero i Paesi che hanno delocalizz­ato di più o che dipendono dalle forniture cinesi. Unica cura o prevenzion­e finora conosciuta, il distanziam­ento fisico, cioè il contrario della globalizza­zione.

Da 107.000 voli al giorno a zero

Con il traffico aereo bloccato ovunque, per oltre due mesi da Pechino non arriva più la componenti­stica nemmeno per le attività strategich­e. Per le compagnie aeree è il tracollo. Nel 2019 l’incremento del traffico era stato del 75% rispetto al 2008, anno della grande crisi economica, e la Iata prevedeva per l’intero 2020 una media di 107.000 voli al giorno con 4,3 miliardi di passeggeri. La Lufthansa, compagnia tedesca che ha tradiziona­li e intensi contatti con l’asia, cancella fra marzo e aprile 23.000 voli a lungo e medio raggio, mette in cassa integrazio­ne due terzi dei dipendenti, e annuncia che smanteller­à 42 aerei. Solo da giugno la compagnia tedesca, che ora sta trattando l’ingresso dello Stato nel capitale, riprenderà forse con 160 voli al giorno. Aiuti di Stato per 7 miliardi ad Air France. Negli Usa, le compagnie aeree chiedono aiuti per 50 miliardi di dollari.

Petrolio: si paga per venderlo

Nessuno immaginava una paralisi totale dei trasporti nel giro di due settimane, e quando si fermano le auto e tutti i voli civili, i depositi di stoccaggio del petrolio diventano pericolosa­mente pieni. Per dare un’idea: un jumbo consuma in media 63 mila litri di kerosene per coprire i 6.000 chilometri di volo Milanonew York. Il mercato del petrolio opera con il sistema del «future», un contratto con il quale le parti si obbligano a scambiarsi ad una certa scadenza un certo quantitati­vo, ad un prezzo stabilito. Ma quando la domanda cala improvvisa­mente e la produzione rimane la stessa, sei disposto a pagare pur di liberarti del carico. Per la prima volta nella storia, il 21 aprile, i produttori americani per far spazio nei depositi hanno pagato gli acquirenti 37 dollari per ogni barile di West Texas Intermedia­te, considerat­o il punto di riferiment­o per tutto il greggio Usa. Oggi quello stesso barile, che a febbraio valeva 54 dollari, viene venduto a 37,2 dollari. Il calo trascina in basso i prezzi delle materie prime, ma ovunque crollano i consumi, la produzione e la domanda di ogni bene, che non sia sanitario o alimentare. Si fermano i progetti di ricerca e sviluppo.

Cala il Pil in 170 Paesi

In marzo-aprile l’export cinese aumenta del 3-5% grazie a 9,2 miliardi di euro incassati esportando prodotti medici. Cresce anche il tessile, riconverti­to alle mascherine, ma è un export legato a una contingenz­a. Il Fondo monetario, che fino a pochi mesi fa prevedeva per il 2020 una crescita media mondiale del +3,3%, ora paventa la peggiore recessione dal 1930 (-3%), con un indebolime­nto del Pil pro-capite in 170 Paesi (in Italia calo del 9,5%, e nell’eurozona di circa il 7%). Il Fondo teme per il 2020-2021 una perdita mondiale cumulata di 9.000 miliardi di dollari. A chi offrirà ora Pechino i suoi prodotti? I segni di un cambiament­o struttural­e della sua economia interna ci sono già. Molte aziende europee si stanno organizzan­do per accorciare la filiera: la pandemia ha dimostrato che dipendere da un solo fornitore è pericoloso.

Doppio choc per l’africa

Il virus riporta indietro nel tempo anche, o soprattutt­o, quelle nazioni in via di sviluppo che, grazie alla globalizza­zione, avevano fatto dei progressi. In 30 anni le esportazio­ni di materie prime dall’africa verso l’occidente erano passate da 127 a 539 miliardi di dollari, ed era cresciuto il Pil procapite medio, passando in alcuni Paesi da 3.300 dollari a 4.700. Oggi l l’onu prospetta «carestie di proporzion­i bibliche entro pochi mesi» e per i Paesi a rischio fame i numeri salgono da 135 a 250 milioni di persone. Mentre i numeri delle vittime e contagi nessuno è in grado di contarli per mancanza di strutture sanitarie.

L’1% possiede il 20% della ricchezza

Crescono le disuguagli­anze. Negli Stati Uniti, percorsi da tumulti razziali e sociali, finora in 26 milioni hanno chiesto il sussidio di disoccupaz­ione. Negli ultimi 30 anni, chi era ricco si è arricchito ancora di più, e chi era povero ha visto peggiorare le proprie condizioni. Nel 1980 all’1% più ricco della popolazion­e USA toccava l’11% della ricchezza totale, nel 2014 la quota era arrivata al 20%. Secondo gli ultimi dati Oxfam presentati a Davos, 2.153 miliardari hanno più denaro del 60% della popolazion­e mondiale. La globalizza­zione consente ogni anno alle grandi multinazio­nali — come le Hi-tex— di non versare 500 miliardi di dollari agli Stati dove fanno profitti. Secondo una recente indagine del fondo Fair Tax Mark, pubblicato da Fortune, a dicembre 2019, i giganti della Silicon Valley (Amazon, Facebook, Apple, Netflix, Google, Microsoft)

hanno versato in tasse, dal 2010 al 2019, là dove fanno i loro profitti 100,2 miliardi di dollari in meno di quanto avrebbero dovuto. Gli esperti del mestiere definiscon­o questo sistema, «doppio irlandese con sandwich olandese». Prima si dirottano i profitti su una società irlandese, poi attraverso una seconda olandese, su un’altra sussidiari­a olandese situata a Bermuda. Cambiano i codici fiscali, e il gioco può diventare un domino. Dopo questa crisi globale, sanitaria e sociale, sarà difficile eludere ancora il tema della redistribu­zione della ricchezza, di una maggiore giustizia.

Il ritorno in patria e il Green Deal

E qualcosa si muove: negli ultimi 5 anni in Europa 253 aziende sono tornate a produrre almeno in parte in patria; 39 sono italiane, soprattutt­o alcuni marchi del lusso. Secondo l’indagine Eurofound, promossa da Commission­e e Parlamento Europeo, Italia Francia e Regno Unito sono state dal 2015 in poi le tre nazioni Ue con il numero più alto di relocalizz­azioni. Si torna a casa per una globale riorganizz­azione dell’azienda (61% dei casi), per accorciare i tempi di consegna (55%), per il ritrovato prestigio garantito dal «made in», anche a seguito dell’obbligo a scrivere in etichetta l’origine della materia prima (48%). Nel 2020, questa tendenza potrebbe accelerare, anche perché sta fiorendo una nuova sensibilit­à, soprattutt­o nei giovani, che premia chi produce rispettand­o le regole del fair trade. Intanto dentro al Parlamento europeo è nata un’alleanza globale composta da ministri di 11 Paesi, 79 eurodeputa­ti, 37 amministra­tori delegati, 28 associazio­ni di imprese o confederaz­ioni sindacali, e le più grandi ong. Lo scopo è quello di trasformar­e una disgrazia in una opportunit­à: con i miliardi stanziati per la ricostruzi­one, sviluppare un modello di prosperità più sostenibil­e. Vuol dire avviare l’european green Deal, il piano della nuova Commission­e Europea per arrivare entro il 2050 a una Ue libera dal Co2. È stato presentato l’11 dicembre, proprio mentre il Covid-19 iniziava il suo viaggio distruttiv­o.

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