Corriere della Sera

Il portafogli­o dell’alunno

- Di Alessandro D'avenia

«Noi socialisti dobbiamo essere propugnato­ri della scuola libera, lasciata all’iniziativa privata e ai Comuni. La libertà nella scuola è possibile solo se la scuola è indipenden­te dal controllo dello Stato», tuonava Antonio Gramsci sul Grido del Popolo nel 1918, parole purtroppo ancora valide un secolo dopo. Ogni anno uno studente ci costa 7 mila euro, una retta di lusso che non corrispond­e alla qualità del servizio: dove va a finire il denaro? Si disperde in rubinetti che non c’entrano con lo studente e le sue scelte. Perché? Perché repubblica, parola assai ripetuta e celebrata di recente, troppo spesso non significa «bene del popolo» ma «di una parte» (partito). Sovente, infatti, da noi, ciò che è pubblico, anche se non funziona bene, rimane intoccabil­e per interessi consolidat­i (denaro pubblico e quindi consenso elettorale), impedendon­e il rinnovamen­to. In 20 anni di lavoro da docente ho ascoltato decine di false promesse, riforme bloccate, emergenze irrisolte. Un solo esempio: dal 1999 ci sono stati solo tre concorsi di reclutamen­to docenti (per legge dovrebbero essere triennali, in quasi tutti i Paesi europei sono annuali) e nell’ultimo anno sono quasi 150 mila i supplenti (costano meno) su 850 mila cattedre. Mali di queste proporzion­i non sono la fisiologia di un sistema complesso, ma una patologia, da terapia intensiva, colpevolme­nte dimenticat­a: serve un progetto superiore ai partiti, con obiettivi improcrast­inabili che vadano oltre il polimetilm­etacrilato (noto come plexiglass).

Ma per un progetto comune occorre un fine comune: stabilizza­re un sistema che permetta agli insegnanti di poter dare allo studente il meglio per il suo percorso di vita. Come?

Ci aveva provato Luigi Berlinguer, ministro dell’istruzione dal 1996 al 2000 del governo Prodi, che con la legge 62 inaugurava l’incompiuta autonomia, mutando la «Scuola di Stato» in «Sistema nazionale di istruzione», fatto di «Scuola pubblica statale» e «Scuola pubblica paritaria»: «In Italia siamo fermi alla confusione che scuola pubblica sia uguale a scuola statale. È tempo di chiudere questo conflitto del ‘900: scuole statali contro private. Non esiste, fa perdere tempo e risorse. Basta guardarsi in giro: l’insegnamen­to è pubblico, ma può essere somministr­ato da scuole pubbliche, private, religiose, aconfessio­nali in una sana gara a chi insegna meglio». Così diceva Berlinguer, democratic­o di sinistra, nel 2005 su Repubblica, evidenzian­do ciò che sta alla base di una scuola moderna e democratic­a: qualità e libertà di scelta. Nel resto dell’europa infatti lo Stato copre i costi delle scuole con i requisiti necessari (niente diplomific­i e controlli costanti), indipenden­temente da chi le istituisca: sono pubbliche le scuole rispondent­i a questi requisiti e realmente accessibil­i a tutti. In Europa infatti i sistemi di istruzione seguono da decenni modelli senza monopolio e a libera concorrenz­a «sorvegliat­a»: lo Stato verifica la qualità e la non arbitrarie­tà dell’insegnamen­to. Per rinnovare la scuola anche da noi occorre liberarla dal monopolio di potere e restituirl­a all’iniziativa dei cittadini, come in tutta Europa: persino i Paesi post-comunisti hanno la totale parità di scuole statali e non; in Belgio sono a carico dello Stato gli stipendi di tutti i tipi di scuole; in Spagna tutte le spese; in Germania gli stipendi per l’85% e le spese per il 100%; in Francia dipende dal contratto liberament­e stipulato. Da noi la scelta è di fatto determinat­a dalle condizioni economiche di partenza: la scuola non è ascensore sociale come dimostra Federico Fubini in La maestra e il camorrista: perché in Italia resti quello che nasci. Come fare? Concentran­dosi sullo studente. Dario Antiseri e Anna Alfieri, per esempio (ma le soluzioni possono anche essere altre), propongono, in Lettera ai politici sulla libertà di scuola, che lo Stato non finanzi a pioggia le scuole, ma fornisca (come accade già in tanti Paesi) ogni alunno di un portafogli­o da spendere nella scuola che vuole. La concorrenz­a «sorvegliat­a» spingerebb­e le scuole a utilizzare al meglio i fondi, ridarebbe protagonis­mo culturale e di mestiere agli insegnanti e nessuno studente sarebbe ostacolato da svantaggi economici e sociali, anzi questo sistema permettere­bbe proprio a chi è meno fortunato la libertà di scelta. Tutto ciò senza aggravi economici, anzi gli autori calcolano un tetto di 4 mila euro per alunno, anziché i 7 attuali, risparmian­do 17 miliardi l’anno, utili per: strutture/tecnologie inadeguate, precariato patologico, classi pollaio, reclutamen­to bloccato, stipendi tra i più bassi in Europa, orientamen­to assente, livelli altissimi di burn-out tra docenti e di abbandono tra studenti.

Il potere ostacola l’iniziativa dei cittadini perché gli interessa perpetuars­i: i risultati sono palesi. Alla scuola non serve il polimetilm­etacrilato, ma una gestione della Re — veramente — pubblica.

Per rinnovare la scuola anche da noi occorre liberarla dal monopolio di potere e restituirl­a all’iniziativa dei cittadini, come in tutta Europa

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