Corriere della Sera

«Così a San Vittore abbiamo vinto il Covid»

Milano, nel reparto speciale che ha curato 62 pazienti «Un gioco di squadra tra volontari, agenti e detenuti»

- Di Paolo Foschini

Il primo contagiato di San Vittore è datato 30 marzo e in realtà non stava neanche a San Vittore: un detenuto ricoverato in ospedale da novembre e per altri motivi. Il virus lo prese là fuori, e altresì fuori guarì. Quella che in carcere era già entrata da un pezzo però era la paura. Tra i detenuti e tra gli agenti, non solo per sé ma quasi di più per le loro famiglie. «Non è stato semplice all’inizio», dice Ruggero Giuliani che di San Vittore è il coordinato­re sanitario, finalmente sorridendo (o quasi) sotto la mascherina.

Ma ora intorno a lui l’équipe di Medici Senza Frontiere arrivata poco più di due mesi fa cammina lungo il corridoio che porta al Centro Covid allestito nel frattempo e al cui ingresso, appena di qua dal cancello, un agente tutto bardato indica ormai con naturalezz­a la bacinella di candeggina lì in terra per la disinfezio­ne delle suole: in tutto simile a quella che potrebbe star fuori da un reparto colera in Haiti. L’ordinaria amministra­zione per Msf. «È stata una lezione importante», dice il direttore Giacinto Siciliano. Molto impegnativ­a, va da sé, con in mezzo la rivolta esplosa il 9 marzo qui come in altre carceri italiane. Ma oggi San Vittore, forse, può ricomincia­re a guardare avanti con in più l’esperienza unica di aver allestito in tempo record un reparto Covid non solo per i «suoi» detenuti ma per anche per quelli degli altri istituti lombardi. In tutto 62 pazienti accolti e curati, finora. Una ventina di San Vittore. Gli altri soprattutt­o da Lecco e Voghera. Un paio da Bergamo e Brescia.

Centro clinico

Solo uno non ce l’ha fatta. Asintomati­co, peggiorato in poche ore, ricoverato al San Paolo, due settimana di terapia intensiva, niente da fare. Il reparto Covid di San Vittore, realizzato in quello che prima era il Centro clinico, è attrezzato «solo» per i trattament­i normali. Che non è poco in un carcere: trasferiti al Centro clinico dell’altro carcere milanese di Opera i 90 pazienti presenti «prima», questo è stato trasformat­o secondo i criteri disegnati dagli esperti di Msf.

La loro équipe — ci sono Marco Bertotto, Sara Sartini, Silvana Gastaldi — è arrivata poche settimane dopo che il carcere aveva interrotto in via cautelare quasi tutte le attività di gruppo dei detenuti, i colloqui con gli esterni, l’ingresso dei volontari. «Momenti di tensione altissima», ricorda chi c’era. Nessuno sapeva bene cosa fare, come del resto fuori. «Ma quando siamo arrivati e abbiamo cominciato a spiegare come comportars­i — dice la dottoressa Sartini — il clima è diventato di fiducia e le cose sono andate sempre meglio». È divenuto un modello, spiega Bertotto: «Come Msf lo abbiamo portato nelle Marche, in Piemonte, in Liguria». Mentre a San Vittore il lavoro quotidiano, finita la formazione, veniva portato avanti dall’équipe medica del carcere.

Volontari

Tutti volontari gli operatori del reparto. Sia tra gli agenti («Prima si son fatti avanti i più giovani — riconosce Pietro Corallo, 27 anni di servizio — e sul loro esempio anche noi più anziani abbiamo capito che dovevamo esserci») sia tra i detenuti addetti ai servizi di cucina e pulizia. Come Stefano Belfiore, 37 anni: «Una esperienza molto forte, che mi porterò fuori».

Il resto del lavoro più impegnativ­o è stata la gestione ingressi dei nuovi arrestati: impossibil­e imporre una quarantena individual­e a ciascuno, adottata una quarantena a gruppi divisi per giorno di arrivo, al quinto raggio. Ha funzionato. Così come sta funzionand­o una delle attività di cui Covid, a fronte dell’interruzio­ne di tutte le altre, ha invece quasi imposto l’avvio: un gruppo di detenuti e detenute produce attualment­e 2.50o mascherine al giorno, in parte destinate anche all’esterno.

Dopodiché questo ha rappresent­ato solo una parte di quel che sono stati i mesi Covid in carcere. Problemi gigantesch­i a cui si è cercata una soluzione nei limiti del possibile, e talora con risultati che sarebbe anche bello conservare: «Come le telefonate e videochiam­ate quotidiane tra detenuti e familiari», dice Siciliano. «E anche per la polizia penitenzia­ria — sottolinea il comandante Manuela Federico — è stato un momento di ritrovata collettivi­tà». «All’inizio — ricorda il provvedito­re regionale Pietro Buffa — il timore era che il virus potesse essere per le carceri una tragedia: abbiamo sperimenta­to che agire in squadra consente di affrontare anche le situazioni più difficili».

Come era stata, in marzo, la rivolta che aveva devastato il Terzo raggio. Ora anche il reparto La Nave all’ultimo piano, coordinato dalla équipe di Graziella Bertelli, è stato completame­nte rimesso a posto dagli stessi detenuti. Il fotografo Nanni Fontana ha regalato al reparto fotografie giganti che ora lo riempiono. E quel che l’intero carcere aspetta, un po’ alla volta, è a questo punto la ripresa delle attività. Che per fortuna, piano piano, sta iniziando. Perché di virus si muore ed è vero. Ma di inattività, in un luogo chiuso, si può comunque impazzire.

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