«Il mondo è fragile, va ripensato»
Intervista all’ex presidente francese: «L’europa si è risvegliata E il Recovery fund è una soluzione migliore degli euro bond»
Il dopo virus disegnato da François Hollande: «Dobbiamo cambiare il nostro modo di vivere — dice in un’intervista al Corriere l’ex presidente francese — . Dovremo adottare un nuovo modello di sviluppo possibile. E riaffermare il valore del vivere sociale».
F rançois Hollande è stato Presidente della Repubblica di Francia dal 2012 al 2017. Ha vissuto i momenti tragici degli attacchi terroristici che hanno insanguinato il suo Paese provocando decine di morti ed è riuscito, allora, a suscitare una grande solidarietà nazionale e internazionale che ha impedito che la Francia tracollasse sotto i colpi di una vera guerra, dichiarata dall’estremismo islamico. È un europeista convinto e un uomo della sinistra democratica. Oggi ha rinunciato a incarichi pubblici ma non alla sua passione politica.
Presidente Hollande, il mondo sarà diverso dopo la pandemia?
«La volontà di ritrovare il lavoro, il naturale bisogno di crescita economica ci spingono a cercare e sperare che torni ciò che avevamo “prima” e ci spinge a lavorare in questa direzione. Al contrario la nostra responsabilità è ripensare un modello di sviluppo che ha mostrato una grande fragilità. È vero che né la globalizzazione né il fattore umano sono stati all’origine di questa crisi. Ma è altrettanto certo che i cambiamenti climatici possono produrre, un domani, delle conseguenze ancora più drammatiche. Noi dobbiamo cambiare profondamente il nostro modo di vivere. Ma non lo faremo semplicemente tornando ai comportamenti precedenti. Dovremo fare delle scelte, nella ripresa post crisi, e adottare un nuovo modello di sviluppo possibile. E riaffermare il valore del vivere sociale. Il confinamento, ad esempio, ci può far abituare alla rinuncia a certe, inalienabili, libertà. Non si vive confinando le libertà».
La società di ieri è crollata come un castello di carte di fronte a una pandemia.
«Per la prima volta abbiamo preso coscienza del fatto che apparteniamo tutti allo stesso pianeta. Quello che è successo prima in Asia, poi in Europa e negli Usa ci ha condotto dovunque a prendere le stesse decisioni. Anche se i populisti hanno detto “chiudiamo le frontiere, barrichiamoci, confiniamoci ciascuno nel proprio Paese”, tutto questo non ha funzionato. Il virus si è propagato in tutto il mondo, ignorando tutti i muri. Non è possibile affrontare i virus globali con una politica nazionalista. Quelli che hanno voluto ignorare il virus o hanno creduto fosse possibile erigere barriere, come Trump, Bolsonaro, Johnson, sono stati raggiunti violentemente dall’infezione. Questa crisi dovrebbe averci insegnato che, se vogliamo evitare ulteriori crisi sanitarie o climatiche, è insieme che dobbiamo prendere le decisioni. E solo insieme potremo vincere le nuove sfide della crisi climatica».
Cosa pensa della reazione dell’europa?
«Come spesso è successo, lo dico per esperienza vissuta e perché ne ho conosciuto il peso nel corso del mio mandato, l’europa prende troppo tempo prima di decidere. L’europa ha tardato nel definire una risposta sul piano sanitario, ha preso troppo tempo nel concepire un sostegno finanziario per fronteggiare gli effetti economici e sociali della pandemia, l’europa non è stata sufficientemente vigilante nel definire regole comuni di comportamento degli Stati membri per ciò che riguarda le frontiere e la circolazione delle persone. Ma oggi si è risvegliata: per la prima volta si è deciso di stanziare un budget supplementare per la ripresa e si è accelerato il processo di convergenza delle politiche di budget che noi abbiamo sempre auspicato e sostenuto. Sono passi importanti, che vanno nella giusta direzione».
La sua opinione sulla speciale relazione tra Francia e Germania? È motore o freno dell’europa?
«Senza un accordo tra Francia e Germania non c’è, non c’è stata e non ci può essere un’europa forte e capace di decidere. Se anche questa relazione è difficile da accettare per grandi Paesi come l’italia che possono avere l’impressione di un ruolo laterale, limitato all’appoggio o al rifiuto delle proposte franco-tedesche, credo sia una verità che, senza l’accordo preventivo tra Francia e Germania — due Paesi che non hanno sempre le stesse posizioni, le stesse filosofie e che non sono nella stessa situazione finanziaria — l’europa rallenta il suo passo, fino a subire una battuta d’arresto. Ogni volta che Francia e Germania divergono, l’europa si ferma. È la storia della costruzione europea, a dirlo».
È giusto che un Paese come l’ungheria sia nell’europa?
«Il popolo ungherese lo merita, con la sua storia e la sua identità. Ma i dirigenti ungheresi non rispettano gli ideali dell’europa. Lo stesso problema si è già posto per un Paese amico della Francia, come la Polonia. Non si può essere nell’europa senza condividere i valori di libertà e democrazia che ne costituiscono le fondamenta. La Commissione europea dovrebbe essere più dura nel far rispettare le regole della costruzione europea. Per il prossimo trattato il sostegno della Commissione a questi Paesi dovrebbe essere condizionato dalla piena e reale adesione ai valori della nostra unità e allo stato di diritto».
La sua opinione sui bond e il Recovery fund?
«Come presidente io ho sostenuto, insieme ai diversi presidenti del Consiglio italiano, l’idea delle “obbligazioni europee”. I tedeschi erano ostili, per non dire totalmente contrari. Per me il Recovery fund, definito nel dialogo franco tedesco e sostenuto dall’italia, è una soluzione migliore di quella degli “euro bond”. È un impegno forte, un sostegno diretto al budget e il rimborso, per la parte dovuta, è legato alla situazione economica di ciascun Paese. Io penso che sia uno strumento che esprime un livello elevato di solidarietà comunitaria».
Cosa pensa della reazione di Trump al barbaro assassinio di George Floyd?
«I moti razziali sono un elemento permanente della storia americana. Ma ora Donald Trump, invece di cercare una via di dialogo e distensione, ha scelto di puntare a uno scontro diretto. Quando una grande democrazia come quella americana sceglie di fare appello all’esercito per reprimere delle manifestazioni, di arrestare dei giornalisti mentre svolgono il loro lavoro, ciò non può non provocare una profonda ferita in tutti gli europei. E questo clima rischia di determinare delle conseguenze nei nostri stessi Paesi, dove sono tornati ad affiorare sentimenti di odio e di discriminazione. Dobbiamo vigilare perché in America non prevalga una deriva repressiva e perché in Europa non emergano spinte razziste e xenofobe».
Fino a qualche anno fa i governi dell’occidente erano per lo più nella responsabilità di forze progressiste. Oggi, dove c’era Obama c’è Trump, dove c’era Lula c’è Bolsonaro… In Europa quasi ovunque governava la sinistra. Cosa è successo, quali sono stati gli errori?
«La sinistra ha avuto responsabilità di governo in quasi tutta Europa, durante gli anni duemila. Ma non ha visto e compreso la dimensione della crisi. Ha mostrato di saper gestire, anche bene, la cosa pubblica ma non di interpretare altrettanto bene le angosce sociali. La questione migratoria ha mutato poi l’orientamento della base popolare della sinistra spostando verso la destra populista settori importanti della classe operaia e degli strati più deboli della società. È saltato, per effetto della durezza della crisi economica, l’equilibrio che la sinistra sempre ha saputo garantire tra crescita economica, giustizia sociale, diritti. La destra populista ha giocato sulla paura, ha utilizzato il timore dell’invasione dei migranti, del declassamento nazionale e individuale e tutto questo è risultato più forte dell’idea del cambiamento possibile. Ma guardi cosa è avvenuto in questa crisi: le ricette sovraniste hanno determinato dei disastri incalcolabili. Hanno spregiudicatamente giocato sulla negazione del rischio sanitario, sul rifiuto delle misure di contenimento e poi hanno soffiato sul fuoco del rifiuto dei “lockdown”. Una miscela infernale, che ha messo in ginocchio i Paesi governati dai populisti. Penso che l’opinione pubblica abbia ora coscienza di questo».
La sinistra, per la prima volta nella sua storia, è sembrata rappresentare le élite e non il popolo.
«Certo, la sinistra avrebbe potuto decidere di non governare e confinare se stessa solo nella gestione delle amministrazioni locali. Ma siamo stati chiamati dal popolo a dirigere i nostri Paesi. Abbiamo dovuto governare e abbiamo assunto anche decisioni che non sempre erano in sintonia con l’orientamento nella nostra base elettorale. La crisi ha determinato un rifiuto della mondializzazione e la domanda di difesa di determinati territori, industrie, modi di vivere. Le persone avevano paura dei cambiamenti veloci e radicali che avvertivano come un pericolo e non come un’opportunità. Essendo al potere, noi eravamo identificati, specie da parte dei ceti popolari, come incapaci di proteggere rispetto a ciò che veniva considerato una minaccia: l’apertura al mondo, il convinto sostegno all’europa. I gilet jaunes non erano altro che questo: il grido di chi avvertiva di essere abbandonato dallo Stato, non si sentiva rappresentato e reclamava protezione. La desertificazione dei territori e dei servizi pubblici ha fatto il resto. La sinistra deve ritrovare il suo carattere popolare e tornare a fornire fiducia nel cambiamento. Il conflitto perenne è, in fondo, tra paura e speranza. Se la sinistra non fa vivere una credibile speranza, vincerà il populismo».
La fine della fabbrica, sostituita dalla società liquida, ha fatto smarrire la sinistra?
«La sinistra era rappresentata dalla classe operaia, è nata e cresciuta nei luoghi di aggre
gazione sociale. La rivoluzione digitale ha cambiato tutto. Il lavoro non riveste più lo stesso valore sociale del passato. E ora lo smart working accentua il rischio di una liquidità del lavoro. Se io sono a casa quale è la mia solidarietà con chi vive la mia stessa esperienza produttiva? La sinistra deve sapere, allo stesso tempo, tenere vive le attività produttive e stendere fili di solidarietà che leghino le entità disperse di economia frammentata. Altrimenti avremo una società dominata dalla solitudine e dalla paura: del proprio futuro, degli eventi climatici, della migrazione. L’isolamento non sarà solo quello vissuto in questa crisi terribile, ma potrà insediarsi e durare dentro le coscienze».
La parola socialismo è stata travolta dal nuovo millennio?
«No, non credo. Le parole possono cambiare, come i nomi. Ma l’impegno per assicurare l’emancipazione attraverso l’educazione e la cultura, per mantenere la solidarietà sociale di fronte alla diseguaglianza, l’organizzarsi collettivamente perché l’aria sia respirabile, perché le città siano luoghi a misura delle persone e della loro socialità. L’ idea che una società migliore sia possibile ha sempre un futuro davanti a sé».
Le sembra che il nuovo millennio veda un consumarsi della democrazia a favore di forme più autocratiche di potere?
«Abbiamo già perduto una buona quota di libertà in cambio del nostro confort. Noi consegniamo ai nostri telefoni una immensa quantità di informazioni sulla nostra vita. Abbiamo devoluto a Google o Amazon una buona parte della nostra libertà individuale. Dobbiamo ora ottenere garanzie perché la nostra privacy e le nostre scelte siano preservate. Questa idea moderna della libertà può, deve, essere un tema identitario della sinistra».
L’europa è stata debole con le grandi potenze della rete?
«Sì. Per molti Paesi dell’europa del Nord la sollecitazione americana è stata forte. Temevano che una tensione con i grandi gruppi avrebbe significato un conflitto con la Casa Bianca. E non avevano torto, perché Donald Trump ci ha più volte minacciato di imporre sanzioni commerciali. Noi, attraverso i nostri consumi, le nostre scelte culturali, le comunicazioni sui social, creiamo una grande mole di informazioni che viene trasformata in profitti, immensi profitti, per altri. E poi esiste un profilo che riguarda i condizionamenti sulla vita della politica, delle democrazie e di tutti noi».
Pregi e difetti del semipresidenzialismo, dopo averlo vissuto da protagonista?
Il modello di sviluppo Dovremo fare delle scelte nella ripresa post crisi, adottare un nuovo modello di sviluppo possibile. E riaffermare il valore del vivere sociale
Il sistema politico Sono per un vero sistema presidenziale: un presidente capo dell’esecutivo con un Parlamento forte che lo controlli e che partecipi
La sinistra
Deve ritrovare il suo carattere popolare e dare fiducia nel cambiamento Se non fa vivere una credibile speranza, vincerà il populismo
Sul sito la versione integrale
Su corriere.it la versione integrale dell’intervista di Walter Veltroni all’ex presidente François Hollande
«La Francia ha un regime costituzionale ibrido. Non è presidenziale, perché esiste un primo ministro e non è parlamentare, perché il presidente ha poteri rilevanti. Per molto tempo è stato un vantaggio, questo equilibrio. Ma oggi penso che dobbiamo scegliere una strada, sciogliere l’ambiguità. Si può optare per un regime parlamentare, ma ne vedo i limiti e l’esempio italiano non mi rassicura. Oppure un vero regime presidenziale, che non è presidenzialismo. Un sistema che preveda un presidente capo dell’esecutivo ma un Parlamento forte che lo controlli e che partecipi alle decisioni su materie come la politica estera. Un sistema presidenziale così consentirebbe anche un forte decentramento delle decisioni, lasciando allo Stato la garanzia dell’unità della nazione. Si dovrà aprire questa discussione, in Francia. E io, proprio in difesa del Parlamento, sono per un sistema presidenziale».
La sinistra presenterà un proprio candidato alle prossime presidenziali?
«L’assenza di un candidato della sinistra sarebbe il miglior favore alla destra. Quali sarebbero le alternative? Gli ecologisti o il populismo di Mélenchon? Una cosa è certa: i socialisti dovranno ridefinire la loro identità e i loro obiettivi. Il posizionamento del Presidente della Repubblica Macron nel centrodestra apre spazi enormi, per una sinistra nuova».
Quale è Macron? il suo giudizio sulla Presidenza
«Emmanuel Macron è stato eletto in un contesto particolare. Io non ero candidato e la destra era rappresentata da una personalità screditata dagli scandali. La sua vittoria rivela più un rifiuto di una presidenza di destra estrema che non una adesione al suo programma. Avrebbe potuto sfruttare al meglio questa situazione politica originale. Ma non lo ha fatto. Macron non ha costruito né una forza politica nuova né una coalizione. La sua linea era che i partiti non avevano più ruolo nella vita della democrazia. Ora il suo, di partito, è sprovvisto di ogni radicamento locale. Lo misureremo nelle prossime elezioni municipali. Per parte mia penso che, senza partiti, senza l’organizzazione attiva dei cittadini, non esista vera democrazia».
Ha votato per Macron?
«Sì. Pensavo fosse dovere di ogni democratico evitare che vincesse l’estrema destra».
Può dirmi quale è stato il momento più difficile della sua presidenza e quale il più bello?
«Lo stesso. I giorni degli attentati sono stati i più crudeli. Vedere dei giovani massacrati in un bar o in un teatro dove erano andati per sentire della musica. Piangere dei giornalisti uccisi barbaramente o degli ebrei assassinati in un negozio di alimentari, per un capo di Stato e per una persona come me è stata una prova molto difficile da vivere. Ma, allo stesso momento, giunto nel fondo dell’orrore, ho visto la luce. L’ho vista nella reazione del mio Paese, nella enorme manifestazione dell’11 gennaio 2015, con centinaia di migliaia di francesi e una moltitudine di capi di Stato e primi ministri di tutto il mondo venuti in Francia nonostante le difficili condizioni di sicurezza. Guardando la reazione dei francesi sono stato fiero di essere il loro Presidente».
Cosa ha pensato quando la sua sicurezza l’ha avvertita, allo Stade de France, che la nazione era sotto attacco?
«Da diverse settimane, dopo Charlie Hebdo, ero informato che si sarebbero potuti verificare altri attentati. Nella tribuna dello stadio ho pensato che le detonazioni che avevo sentito erano dunque dei tentativi di strage, per fortuna non realizzatisi perché il terrorista non era riuscito a entrare. Sarebbe stata una carneficina. Ma non avevo ancora informazioni su quello che stava succedendo a Parigi. È stato subito evidente che non ci trovavamo davanti a un isolato attacco terrorista, eravamo il bersaglio di una azione di Daesh preparato da molto tempo, con decine di persone organizzate e istruite per uccidere. Dovevamo considerarci in guerra».
Quale è il futuro di François Hollande?
«La vita è piena di sollecitazioni ma anche di imprevisti... Per quanto mi riguarda, io ho servito il mio Paese e mi sento un militante della democrazia. Sono rimasto coerente con i valori nei quali credevo fin dai miei anni giovanili, li ho messi in sintonia con il mutare dei tempi. Non riesco a separarmi da questo impegno civile che ha illuminato la mia vita e al quale resto e resterò fedele».