Rabbia al New York Times, lascia il capo dei Commenti
Macron prova a sanare la ferita del caso Traoré
James Bennet non è più il direttore della pagina delle opinioni del New York Times. Si è dimesso sabato scorso, dopo che la redazione aveva fortemente criticato la pubblicazione di un articolo del senatore repubblicano dell’arkansas Tom Cotton che chiedeva di usare i militari per fermare le proteste. «La scorsa settimana abbiamo assistito a un guasto del processo editoriale, e non era la prima volta negli ultimi anni», ha affermato l’editore A.G. Sulzberger. Al suo posto è stata promossa la vice Katie Kingsbury, 41 anni. Oltre alla pubblicazione dell’articolo, Bennet, 54 anni, paga la gestione della crisi che ne è scaturita. Prima ha difeso la decisione, poi, nel corso di un meeting virtuale con la redazione, ha ammesso di non aver letto l’opinione di Cotton prima della pubblicazione. preventiva dei risultati: voto postale, irregolarità nelle registrazioni degli elettori, userà qualunque argomento. E se a novembre perde, griderà alla frode. Se il suo partito lo seguirà in questa follia non lo so. Ma temo che sarà molto brutto».
Descrivi un Paese alle soglie di una guerra civile.
«Non siamo a quello. Ma non ci parliamo più. Tu hai coperto la Casa Bianca e sai che nessuno ha mai abusato cinicamente di quella posizione come fa Trump per aizzare la sua parte politica. Dall’altra parte c’è una sinistra arrabbiata. Non c’è più terreno comune».
Gli ex capi militari, da John Mattis a Colin Powell, hanno apertamente attaccato il commander in chief dopo la sua minaccia di mandare le truppe nelle città contro la protesta. Che segnale è?
«L’altolà dei militari, che hanno a cuore le tradizioni e i valori del Paese, dà la misura della gravità della situazione. Perché se non lo fai, avremo altri episodi gravi come quello della chiesa, in cui Trump ha usato i militari per una photo opportunity altamente politicizzata. Al Pentagono sono scandalizzati da quanto è successo».
Fra gli incendiari, hai accusato anche i baroni dei social media. Qual è la loro responsabilità?
«Se crei una comunità di quasi 3 miliardi di persone e poi rimuovi ogni tipo di cuscinetto, quando le persone cominciano a comportarsi in modo irresponsabile lasciandosi guidare da emozioni e istinti, gli shock si trasmettono ovunque, proprio come la pandemia. Abbiamo tutti una responsabilità di costruire cuscinetti, in termini di etica personale, di editing o di limiti a contenuti razzisti e odiosi. Mark Zuckerberg non vuole cuscinetti, preferisce lasciar correre liberamente la follia di ognuno. Il risultato è una piazza virtuale e globale dell’instabilità».
Qualcuno paragona le proteste per la morte di Floyd a quelle per i diritti civili degli anni 60. Ma questa volta non ci sono leader riconoscibili
Adama Traoré, francese nero 24enne, è morto in un commissariato il 19 luglio 2016, poco dopo un «placcaggio ventrale» durante il quale ripeteva «non respiro». Gli agenti coinvolti non sono mai stati portati davanti alla giustizia e la mobilitazione in memoria di Adama ha ripreso forza e visibilità dopo le proteste in America. Martedì 2 giugno 20 mila persone si sono radunate a Clichy, nella banlieue parigina, per denunciare le violenze della polizia. Come George Floyd negli Stati Uniti, Adama Traoré è il simbolo della lotta antirazzista in Francia e su sollecitazione del presidente Macron la ministra della Giustizia Nicole Belloubet ha proposto ai famigliari un incontro. Rifiutato, perché la sorella Assa Traoré chiede «una procedura giudiziaria, non discorsi».
● Tom Friedman, 66 anni, editorialista principe del «New York Times» e tre volte premio Pulitzer: è nato a Minneapolis
● Ha scritto, tra l’altro, «Il mondo dopo l’11 settembre» (Mondadori)
a guidarle...
«Da Hong Kong a Minneapolis viviamo nell’era delle proteste senza leadership. Difficile oggi diventare un leader, nell’era dei social network. Ma per avere successo i movimenti hanno bisogno di tradurre la protesta in domande per il Paese e cercare i compromessi necessari, così come accadde allora con Martin Luther King. Non ci sono più quei movimenti. Al sindaco di Minneapolis è stato chiesto in un video diventato virale: “Lei è d’accordo ad abolire immediatamente la polizia?”. Ha risposto di no. È stato fischiato, minacciato e insultato. Oggi si passa dal risveglio alla richiesta di decapitazione».
Come «defund police»?
«Infatti. Riformare la polizia è necessario, ma chiedere di abolirla tagliando tutti i fondi è assurdo. Pensiamo a come reagiscono gli elettori bianchi di Trump nel Minnesota. Io vengo da lì, li conosco. Chiedere l’eliminazione della polizia significa spingerli ancora di più nelle sue braccia».
● Arrestati entrambi gli accusati: hanno ammesso le torture.
Gli imputati si trovano ora in custodia cautelare
● In Pakistan si stima che ci siano 12 milioni di bambini lavoratori: il lavoro minorile è illegale solo nelle fabbriche ma è consentito nelle case e nei ristoranti
● Il ministro dei diritti umani, Shireen Mazari, ha promesso di classificare il lavoro domestico come «occupazione pericolosa» i due, inferociti per la fuga di due uccellini che tenevano rinchiusi in una gabbia in cortile, iniziano a torturarla. Poi, spaventati dalle possibili conseguenze della loro brutalità, la portano in ospedale. «Non abbiamo potuto fare niente per lei: le lesioni al viso, alle mani, sotto la gabbia toracica e alle gambe erano troppo gravi», racconteranno i medici. Ma non solo. Secondo l’autopsia, non si esclude che Zohra abbia subito anche un’aggressione sessuale, suggerita da alcune ferite alle cosce.
Non appena si è diffusa la notizia, è scattata l’indignazione generale. In tanti, con l’hashtag #Justiceforzohrashah, hanno chiesto giustizia per la bambina costringendo la polizia ad agire immediatamente e arrestare i due assassini che nel frattempo avevano confessato. E ancora. Dal momento che in Pakistan è illegale il lavoro minorile nelle fabbriche ma non quello nelle case e nei ristoranti, il ministro dei Diritti umani, Shireen Mazari, il 3 giugno ha promesso una modifica della legge che classifichi o i riti funebri». Rabiya Javeri Agha del ministero dei Diritti umani, ha sottolineato anche come la costituzione pachistana non sia chiara sulla definizione di infanzia e minore età. Secondo Agha serve anche una legge per rendere la «crudeltà verso un bambino» un reato penale. Ma, prima ancora della legge, è necessario modificare le consuetudini: «Perché il concetto di disciplina passa ancora troppo spesso attraverso le punizioni corporali — sia a casa che a scuola».
Botte, soprusi, abusi e infanzie negate. La storia di Shah purtroppo ha dei precedenti. In primis quello di Iqbal Masih, diventato nel 1995 simbolo della lotta contro il lavoro minorile dopo essere stato ucciso per aver tentato di opporsi allo sfruttamento. Fino al 2016 quando una cameriera di 10 anni è stata torturata dai suoi datori di lavoro, un giudice e sua moglie, la cui condanna a tre anni è stata ridotta a uno. Come se la vita di questi bambini non avesse alcun valore.