PD E DESTRA, È GIÀ SFIDA A RAGGI MA NOMI «FORTI» NON CE NE SONO
Il sindaco di Roma A un anno dal voto la partita è cominciata Crimi apre alla ricandidatura, però i dem puntano alla Capitale Sul fronte opposto, Forza Italia è debole: decidono Lega e FDI
La corsa è già scattata. All’ombra del virus, nel silenzio distratto da contagi e conteggi, la politica non ha smesso di costruire percorsi e affinare strategie per la battaglia dal cui esito, giusto tra un anno, uscirà il nome del nuovo sindaco di Roma. Conquistare il Campidoglio ha una valenza simbolica importante almeno quanto quella reale. Perché con tutti i suoi mali Roma è la Capitale. E perché chi riuscirà a ridarle luce, se non splendore, potrà dimostrare sul campo di avere forza, credibilità e idee per affrontare le stesse sfide a livello nazionale. Sempre che il precipitare della situazione non inverta le due partite. Scenario che sembra guadagnare terreno ogni giorno.
Ma concentriamoci su Roma. La donna da battere è la grillina Virginia Raggi, sindaca in scadenza tra un anno e che negli ormai quattro trascorsi in Campidoglio ha avuto la capacità non comune di trasformare un trionfale consenso in dilagante scontento. Si moltiplicano le voci che la danno molto vicina a ricandidarsi con o senza l’appoggio ufficiale di un M5S in parte deluso da lei e comunque in continuo calo di consensi. Il reggente del movimento, Vito Crimi, ha di fatto aperto alla ricandidatura proponendo di ridiscutere il vincolo del doppio mandato. E il suo collega Paolo Ferrara si è lasciato andare a un paragone almeno surreale, Virginia Raggi come Michelangelo: bisogna permetterle — ha detto — di terminare il lavoro che sta portando avanti, così come il Buonarroti portò a termine la Cappella Sistina. Per la verità, a oggi la gestione Raggi ha una vitalità da encefalogramma piatto, realtà della quale si sono accorti anche molti esponenti del movimento, che infatti si oppongono alla ricandidatura. Dopo quattro anni appare del resto ragionevole ritenere, al di là di improbabili miracoli, che nella volata finale non vedremo impennate di ingegno. Perfino nell’emergenza Covid-19 non c’è stato quel colpo d’ala che pure non sarebbe impossibile.
C’è poi il Pd. Che non vuole sentir parlare di appoggio a una eventuale ricandidatura della Raggi — «una minaccia» avrebbe chiosato
Accordi Zingaretti non vuole neppure sentire parlare di un appoggio alla prima cittadina uscente
Zingaretti — perché la giudica perdente ma anche perché, a torto o ragione, ritiene Roma una faccenda da risolvere in casa propria. Probabilmente, al netto della inconcludente gestione Marino, si fa ancora memoria ai doppi mandati di Walter Veltroni e Francesco Rutelli. Ma la storia cammina, non aspetta, vuole essere scritta ogni giorno. Possibilmente con competenza. E al momento, al di là delle voci e delle provocazioni — vedi l’attore Massimo Ghini che si è scherzosamente autoproposto — un candidato non c’è, anche se sembra accreditarsi sempre più quello di Roberto Morassut, sottosegretario all’ambiente, parlamentare Pd ed ex assessore all’urbanistica e a Roma Capitale della giunta Veltroni. Un uomo che conosce assai bene la città e la sua macchina amministrativa e ha buoni rapporti con il mondo produttivo romano. Ma siamo ancora sul filo delle voci per un’operazione niente affatto semplice perché, per quanto appetibile possa essere la carica di sindaco di Roma, i rischi di bruciare una carriera sono assai forti. È pur vero che, vista la situazione, occorre un nome forte, di prestigio, qualcuno con un curriculum vero, riconosciuto. Se il Pd vuole «riprendersi» Roma è questo che dovrà fare. La caratura avrà più peso di qualunque tessera, questa volta, e sarà bene che Zingaretti non si lasci incantare da sussurri e grida, da cordate, amici degli amici, salotti men che mai. Dia insomma conferma di un nuovo corso. Vero. E sia fermo anche quando si tratterà di andare a condividere un proprio candidato con i satelliti che ruotano intorno a un centrosinistra che più che a geometria variabile appare a improvvisazione caotica. Il caso Renzi, più che la cartina di tornasole di questo disordine, ne è la ferita più sanguinante e apparentemente insuturabile.
E veniamo al centrodestra. Qui, Matteo Salvini accarezza il sogno di vedere le insegne leghiste sventolare sulla testa della lupa capitolina. Il suo spot offre numerosi esempi di buongoverno in città e regioni del Nord. E per molti romani
Leader
Giorgia Meloni avrebbe buone carte, ma sembra orientata verso obiettivi più ambiziosi
si tratta di un argomento a presa rapida. Come lo sarebbe — ancor più — l’idea di affidarsi a Giorgia Meloni, la giovane leader che ha creato Fratelli d’italia, partito che viaggia oltre il 16%, e si è conquistata una fiducia che va oltre i confini del centrodestra. Meloni non avrebbe rivali ma ha obiettivi più ambiziosi. Il che non fa piacere a Salvini con il quale — anche alla manifestazione faticosamente unitaria del 2 giugno — i sorrisi sono stati più di circostanza che di sostanza. E Forza Italia? Ciò che rimane — ben poco — della potenza che fu la macchina romana di Silvio Berlusconi sarà difficilmente in grado di imporre un proprio esponente da mettere in campo. E gli ultimissimi rumors danno infatti sul tavolo un’intesa in base alla quale sarebbe FDI ad indicare il nome del candidato sindaco e la Lega quello per la più lontana presidenza della Regione Lazio (il nome forte sembra essere quello di Claudio Durigon, ex sottosegretario al Lavoro nel governo gialloverde). Se questo dovesse essere lo scenario, non sarà comunque facile per la Meloni trovare un nome di alto profilo per il Campidoglio. Con una squadra fatta di fuoriclasse e non di comparse.
Detto questo, si può forse leggere che il fatto che i partiti siano già al lavoro su Roma sia un buon segnale. A patto che, evitate basse manovre politiche, schierino teste di serie e non teste di legno. Anche a costo di rinunciare ai mortiferi vincoli di fedeltà al partito (o di schieramento) in cambio di una gestione intelligente, alta e coraggiosa. Cioè, niente sgomitate, inciuci, autocandidature. Perché se, come diceva Leo Longanesi, l’arte è un appello al quale molti rispondono senza essere chiamati, lo stesso vale per la politica.