Corriere della Sera

Sogno, l’ambizione di essere il De Gaulle d’italia

Eroe della Resistenza, pianificò poi un golpe «presidenzi­alista» Una vita temeraria e aristocrat­ica raccontata ad Aldo Cazzullo

- di Aldo Cazzullo

A 20 anni dalla morte e dal «Testamento di un anticomuni­sta», per Mondadori torna il volume che fece molto scalpore, di cui anticipiam­o la nuova prefazione

Anticipiam­o un brano della nuova prefazione al libro-intervista di Edgardo Sogno con Aldo Cazzullo, «Testamento di un anticomuni­sta. Dalla Resistenza al golpe bianco» che Mondadori ripubblica a vent’anni dalla morte di Sogno, e della prima edizione del volume in cui il conte raccontò di aver davvero preparato un «golpe bianco».

Èstata una bella avventura scrivere con Edgardo Sogno il libro sulla sua vita. Già la sua casa era un ambiente da romanzo. Un incrocio tra un casotto di caccia di un nobile sabaudo e una residenza coloniale da romanzo francese di spionaggio: le teste di cervi dalle corna imponenti e i passaggi segreti (una scala portava in un’intercaped­ine nel soffitto, un tunnel conduceva nei sotterrane­i e da lì in strada), la spada di Carlo Alberto dono di nozze della marchesa Visconti e i reperti orientali di quand’era ambasciato­re in Birmania, il ritratto con la veste rossa dell’ordine dei santi Maurizio e Lazzaro e gli acquarelli esotici. Un palazzo sorto sulla rovine della Cittadella, il quartiere più torinese di Torino — almeno della Torino cara a Sogno: vie squadrate, linee metafisich­e, nemmeno una panetteria — con i ritratti degli avi imparrucca­ti e le statue di Buddha portate via da Pagan con stratagemm­i da esplorator­e. E poi la botola per sfuggire ai nazisti e ai carabinier­i, cui Luciano Violante aveva affidato l’ingrato compito di perquisire una casa così complicata.

Per settimane, il conte mi raccontò la sua storia. La guerra di Spagna. I gesti di insofferen­za al regime: la volta che, dopo la firma delle leggi razziali, Sogno passeggiò per i portici di via Po con una stella gialla appuntata sul petto; la volta che, dopo il discorso di Mussolini del 10 giugno 1940, spalancò le finestre di casa per far ascoltare all’intero quartiere la Marsiglies­e, l’inno del Paese cui l’italia fascista aveva appena dichiarato guerra. E poi la lunga epopea della guerra partigiana.

Nella Resistenza Sogno ebbe un ruolo di primo piano, e non perdonò mai alla sinistra e ai suoi intellettu­ali di non averglielo riconosciu­to. Rappresent­ante del Partito liberale nel Comitato militare di liberazion­e del Piemonte, evita di essere fucilato al poligono del Martinetto con il generale Perotti, il capitano Balbis e gli altri sei eroi solo perché quel giorno era in missione a Genova, e non poteva partecipar­e all’incontro fatale nella sacrestia del Duomo. Paracaduta­to oltre le linee tedesche, tiene i contatti tra gli Alleati e le bande partigiane, va in missione a Roma con Parri, Pajetta e Pizzoni per stringere il rapporto tra il Comitato di liberazion­e dell’alta Italia e il governo Bonomi, fonda l’organizzaz­ione Franchi, viene arrestato mentre tenta di liberare Parri, picchiato, torturato, infine scarcerato dai nazisti su pressione dei servizi americani. Dopo la guerra, Sogno fonda un giornale, entra in diplomazia, collabora con Scelba all’anticomuni­smo di Stato, scrive un progetto per quella che diventerà Gladio, e con i denari prima di Valletta e poi della Cia inventa Pace e Libertà, organizzaz­ione di punta dello scontro con il Pci e la Cgil. Briga per farsi nominare ambasciato­re a Saigon, nel pieno della guerra del Vietnam, ma per una beffa del destino — e di Moro e Fanfani — si ritrova a Rangoon, in Birmania, dove non accade nulla: la moglie Anna dipinge i suoi migliori acquerelli, Sogno colleziona antichità e studia il regime militare.

Proprio nei torbidi degli anni Settanta la medaglia d’oro della Resistenza vede l’opportunit­à di tornare a essere l’uomo d’azione che era stato, combattend­o i comunisti con la stessa durezza con cui ha combattuto i nazifascis­ti. La Procura di Torino lo accusa di aver preparato un colpo di Stato. Sogno finisce in carcere. Giudice istruttore è Luciano Violante, poi deputato del Pci. Il conte passa un mese e mezzo a Regina Coeli («ero in cella con due che avevano ammazzato la moglie ma mi trattarono benissimo»), prima di essere liberato e prosciolto.

Fu allora, quando cominciò a parlarmi di quegli anni, che compresi perché Sogno

desiderava fare questo libro almeno, anzi più di quanto lo desideravo io. In quegli anni era considerat­o una vittima dei comunisti, come tale era stato candidato da Alleanza nazionale alle elezioni del 1996, veniva invitato ai convegni di Forza Italia, lo si nominava per ricordare quanto i postcomuni­sti fossero cattivi (proprio nel 1996 Violante era diventato presidente della Camera). Ma Edgardo Sogno Rata del Vallino moriva dalla voglia di far sapere al mondo che lui non era una mammoletta, un debole, un indifeso. Che i comunisti li avrebbe volentieri confinati su un promontori­o sardo. Che avrebbe fatto dell’italia, con l’appoggio dei militari, una Repubblica presidenzi­ale sul modello gollista. Ovviamente dal suo punto di vista questa non era una confession­e, ma una rivendicaz­ione. Il suo modello non erano certo i golpe sudamerica­ni, ma la prova di forza incruenta con cui il Generale aveva riscritto la Costituzio­ne francese. Lui del resto si considerav­a un po’ il De Gaulle italiano: il punto di riferiment­o morale degli antifascis­ti non comunisti.

Ovviamente Sogno non era De Gaulle, così come l’italia non è la Francia. Ma quelli che ancora oggi lo raffiguran­o come la fragile vittima di una cospirazio­ne non sanno di fargli il peggiore dei torti possibili.

A quel punto, per essere più sicuro, passai dalle registrazi­oni dei nostri colloqui ai testi scritti. Conservo ancora i dattiloscr­itti con le correzioni di suo pugno con cui Edgardo Sogno rispose alle domande sul golpe. «Credo sia arrivato il momento di non tacere più nulla. Iniziando l’organizzaz­ione militare per lo strappo al vertice sul modello gollista, io non avevo dub

bi, come non ne aveva Pacciardi, di compiere un atto dovuto, nella difesa della libertà democratic­a e per la ricostruzi­one dello Stato sulle sue basi storiche e risorgimen­tali. Si trattava di un’operazione politica e militare, largamente rappresent­ativa sul piano politico, e della massima efficienza sul piano militare. Le dirò i principali reparti pronti a operare, con i loro comandanti, che avevo tutti contattati personalme­nte. La Regione Militare Sud, il comandante; la Regione Militare centrale, il vicecomand­ante e il capo di Stato maggiore; l’arma dei carabinier­i, il vicecomand­ante; la Divisione carabinier­i Pastrengo, il comandante; la Legione carabinier­i di Roma, il comandante; la Brigata paracaduti­sti a Livorno, il comandante; la Divisione Folgore, il comandante; la Marina, il capo di Stato maggiore generale, l’aeronautic­a, il capo di Stato maggiore generale…». E poi i nomi: i generali Liuzzi, Ricci, Picchiotti, Palumbo, Santovito, Barbasetti, Giulio Cesare Graziani, Borsi, gli ammiragli Roselli Lorenzini e Pighini, il procurator­e generale presso la Cassazione Colli, politici democristi­ani, liberali, e pure ex comunisti come Eugenio Reale…

«Finalmente un mistero italiano risolto» scriverà Michele Serra su «Repubblica». In tanti invece non si sono rassegnati alla più semplice delle verità, quella uscita dalla penna del protagonis­ta, al momento di lasciare la scena. Certo, quando vent’anni fa uscirono le anticipazi­oni del libro, le reazioni sulle prime pagine dei giornali furono unanimi. L’ex presidente della Repubblica Francesco Cossiga chiese scusa a Violante per averlo definito «un piccolo Vishinskij». Ernesto Galli della Loggia scrisse sul «Corriere» che «Sogno mise nei suoi piani il suo impegno più pieno, la sua vasta rete di amicizie, tutte le risorse del suo temperamen­to singolare». Eugenio Scalfari su «Repubblica» valutò che «non si tratta certo di un golpe da operetta, visto che il gruppo dei congiurati coinvolge gran parte dell’apparato militare, si avvale del consenso attivo o attendista di importanti settori politici ed economici, ha ottenuto il via libera del responsabi­le in Italia dei Servizi americani», e indicò in Giulio Andreotti, nell’estate del 1974 ministro della Difesa, l’uomo che aveva fatto fallire i progetti golpisti, trasferend­o o defenestra­ndo tutti i generali indicati da Sogno. Alcuni generali confermaro­no la ricostruzi­one. L’ex ministro dell’interno Paolo Emilio Taviani, che al telefono con me nella fase di stesura del libro aveva negato, confermò in un’intervista a Giovanni Maria Bellu di «Repubblica» che era stato lui a mettere la Procura di Torino sulle tracce di Sogno. In difesa del conte si espressero Paolo Guzzanti sul «Giornale», Enzo Bettiza sulla «Stampa» e Giuliano Ferrara sul «Foglio»: «Sogno era un po’ golpista, ma Violante non aveva ragione, visto che non trovò le prove».

Poi la polemica storica e culturale si assopì. La memoria di Sogno ha ripreso a essere usata per le rituali polemiche. Molti parlano come se il Testamento di un anticomuni­sta non fosse mai uscito, e in tal modo fanno un torto a lui, perché il libro è più suo che mio. È la sua ultima parola. Ma la sua ultima parola interessav­a poco sia agli pseudostud­iosi del «doppio Stato» e del complottis­mo, i quali ovviamente sapevano già tutto, sia ai profession­isti dell’anticomuni­smo, che di Sogno sapevano meno di nulla ma a cui Sogno serviva nel ruolo della vittima.

Tensioni

Negli anni Settanta, il suo nome incute paura e speranza. «Sogno, Sogno, l’italia ne ha bisogno» si grida nei cortei della destra

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 ??  ?? Edgardo Sogno (a sinistra) insieme con Ronald Reagan, presidente degli Stati Uniti dal 1981 al 1989
Edgardo Sogno (a sinistra) insieme con Ronald Reagan, presidente degli Stati Uniti dal 1981 al 1989

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