Corriere della Sera

L’eterno mantra su «chi rema contro» il governo

- di Fabrizio Roncone

Più che uno sfogo, un mantra, il vecchio mantra di certi premier italiani, quando il vento della politica gira e le previsioni danno burrasca.

Una mattina intera, tutti a leggerci e rileggerci la frase di Giuseppe Conte: «C’è un pezzo di Stato che sta remando contro il governo e le riforme».

Decodifica­to: non riesco a lavorare come vorrei perché mi remano contro frange di parlamenta­ri nell’ombra e leader dal doppio sguardo, e poi ci sono le resistenze degli apparati burocratic­i dei ministeri, quelle lentezze appiccicos­e ed estenuanti, da un ufficio a una segreteria e ritorno, soltanto perché gli hai chiesto un parere e non te lo danno, oppure lo respingono, e se te lo danno, è sempre troppo tardi.

Non subito, come si fa di solito, ma con comodo, dopo pranzo, da Palazzo Chigi fanno sapere che comunque Conte quella frase «non l’ha mai pronunciat­a», senza però chiarire se l’abbia almeno pensata, o addirittur­a scritta. La cosa certa è che nello staff di Conte devono essersi ricordati di quanto il mantra della «remata contro» porti male, malissimo, anche se — per dire — uno dall’eloquio creativo come Matteo Renzi, ad un certo punto cercò pure di renderlo giornalist­icamente croccante, introducen­do la figura del «gufo». Fu un’ideona: a lui non remavano contro, sempliceme­nte portavano sfortuna. Gufavano il premier. Seguirono titoloni e interviste, i renziani estasiati dalla genialata del capo, solo che l’invenzione retorica di stampo ornitologi­co non servì a risollevar­e le sorti governativ­e del giglio che da magico era diventato tragico abbastanza subito, stremato e stressato dalla promessa fatta da Renzi poche ore dopo aver varcato il portone di Palazzo Chigi: «Faremo una riforma al mese».

Sappiamo tutti com’è finita. Anche se poi, ovviamente, è sempre colpa degli altri. Che — appunto — remano contro. Davvero: mai pronunciar­e questo mantra, mai.

E invece, nel 2006, ci cascò persino il Cavaliere, ancora nel pieno del suo splendore, Palazzo Grazioli aperto e ambito, la corte luccicante, lo champagne, il barboncino Dudù che saltava sui divani e atterrava sulle gambe di Denis Verdini, sporcandog­li l’abito cucito a mano con una stoffa di seta misto cachemire fatta arrivare da Londra.

«Sì — disse Silvio Berlusconi — persino le mie tv mi remano contro. Solo il tigì di Emilio Fede mi sostiene» (anni dopo, avremmo capito anche il perché).

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