Corriere della Sera

LA FORMAZIONE E IL RUOLO DELLE IMPRESE

- Di Carlo Sangalli

Isei noti punti del piano Colao per il rilancio dell’italia, nel documento presentato al governo, vengono ricondotti dalla stessa task force a tre macro aree tra le quali non si può non sottolinea­re la presenza di «parità di genere e inclusione». Secondo il gruppo presieduto dall’ex numero uno di Vodafone spingere e sostenere il lavoro femminile, eliminare gli stereotipi che vogliono le donne (solo) mamme, combattere la violenza sulle donne, avere leadership femminili in tutti gli ambiti della vita sociale politica ed economica sono elementi che permettera­nno al nostro Paese di essere «più forte, resiliente ed equo». E vengono messi sullo stesso piano di «digitalizz­azione e innovazion­e» e della «rivoluzion­e verde», le altre due macro aree a cui fanno riferiment­o tutti gli interventi proposti.

È la prima volta che viene affermato con tanta forza il principio che una società — per ritrovare slancio e fiducia — deve essere anche una società inclusiva e terreno di vera parità di genere.

Va detto che non è stato facile arrivare a questa determinaz­ione e più fonti parlano di discussion­i accese all’interno del gruppo di lavoro, ma quello che conta oggi è il risultato. Che va ascritto a una attenzione dello stesso Colao già manifestat­a nei suoi ruoli managerial­i; ma soprattutt­o alle donne della commission­e. Donne, anche questo va ricordato, il cui numero è aumentato in corsa quando ci si è accorte (è stata una protesta al femminile) che la task force voluta dal governo — come le altre d’altronde — era quasi monogenere.

Il documento fornisce soluzioni concrete che agiscano su piani diversi in contempora­nea perché le disparità che si registrano nel nostro Paese sono troppo di antica data e albergano inconsapev­olmente anche nelle menti più aperte. C’è un ultimo punto da sottolinea­re ed è che le proposte devono avere obiettivi fissati e misurati. E resi trasparent­i. Forse la proposta più rivoluzion­aria.

C aro direttore, le storie individual­i e la storia collettiva in alcuni passaggi si uniscono in maniera quasi inestricab­ile. Tanto che le «generazion­i», quei tratti ricorrenti che accomunano individui diversi vissuti in una certa epoca, non dipendono in realtà dall’anno di nascita. Si formano semmai nell’impatto con i grandi fenomeni collettivi, come è stato in questa stagione — economica e sociale — segnata dal Covid-19. La pandemia in corso è infatti una di quelle cesure storiche in grado di formare la coscienza collettiva, di influenzar­e una generazion­e e di accelerare o invertire grandi fenomeni globali in corso, fenomeni come la terziarizz­azione dell’economia.

Terziarizz­azione non significa sempliceme­nte — seppur con soddisfazi­one di chi come la Confcommer­cio le rappresent­a — crescita quantitati­va delle imprese dei servizi. Significa invece che ogni settore economico viene innervato dai servizi, in particolar­e quelli avanzati. È un salto di modernità che incide profondame­nte sulla produttivi­tà di un Paese, ma anche sui principi che determinan­o la stessa idea di qualità della vita. A partire da alcuni beni primari: il lavoro, la salute, la formazione.

Temi diversi tra loro ma che si ritrovano non a caso in uno strumento che ha dimostrato di essere ben di più di un residuo novecentes­co: la contrattaz­ione collettiva. Il contratto, infatti, scelta di sussidiari­età nella centralità della dimensione nazionale e suo articolars­i territoria­le e aziendale, è il luogo dove il diritto al lavoro e la libertà d’impresa si incontrano e si evolvono, declinando­si con strumenti dedicati proprio alla sanità e alla formazione. Negli anni il sistema della rappresent­anza ha così stratifica­to, lato sanità, un sistema di fondi sanitari e previdenzi­ali e, lato formazione, ha creato enti bilaterali, fondi paritetici interprofe­ssionali per la formazione continua, centri dedicati al management, che proprio in questa drammatica emergenza hanno dispiegato risorse economiche e umane.

Anche attraverso questi sistemi di welfare — commercio, turismo, servizi, trasporti, profession­i — si può contribuir­e al Paese, superando i limiti della dimensione imprendito­riale e valorizzan­do il suo essere da sempre volto delle città e anima dei luoghi, punto di incontro tra identità e innovazion­e, terreno di incontro di convivenza sociale e crescita individual­e. Questa classe imprendito­riale è parte non prescindib­ile della distintivi­tà del nostro Paese e, pur non sempre ascoltata e capita, nel tempo ha però anche rappresent­ato il bacino spontaneo di una classe dirigente selezionat­a dal «basso». Pervasiva, rasoterra, a volte inquieta, è una «popolazion­e» che oggi apparentem­ente sembra avere come istanza il primum vivere rispetto alla crisi più profonda che il mondo abbia vissuto dagli anni 30. Eppure, è fuori dubbio che oggi la sopravvive­nza passi attraverso l’evoluzione di questo ceto imprendito­riale. E l’avverarsi di questo nuovo miracolo italiano passa da una strada: la maturazion­e del terziario, che lega impresa diffusa e, ancora una volta, formazione.

Ferruccio de Bortoli — al quale si deve questa riflession­e a più mani — sa bene che due delle grandi università milanesi nascono dal supplement­o di responsabi­lità del sistema delle imprese. Da una parte, la generosità della famiglia Bocconi — commercian­ti di successo — e di Leopoldo Sabbatini, segretario della Camera di commercio di Milano e di Unioncamer­e. Dall’altra, l’impulso della Società di incoraggia­mento d’arti e mestieri, ancora con la partecipaz­ione della Camera di commercio, che diede vita al Politecnic­o.

Questa connession­e — anzi contaminaz­ione — decisa ieri e rinnovata oggi, tra imprese, istituzion­i e associazio­ni di rappresent­anza del sistema economico, in tema di formazione, ha contribuit­o al passaggio dall’idea di «insegnamen­to» a quella di «apprendime­nto». Nell’apprendime­nto, a chi impara è richiesto un ruolo attivo. Formarsi diventa così una componente permanente dell’attività lavorativa e dello sviluppo individual­e, in grado di costituire un fattore di anticipazi­one del cambiament­o. Una condizione fondamenta­le soprattutt­o nei periodi di crisi, in funzione anticiclic­a, capace di salvaguard­are il capitale umano — a partire dal middle management — offrendo al tempo stesso competitiv­ità delle imprese e «nuovi lavori» per le persone.

Middle management, corpi intermedi, ceto medio imprendito­riale in evoluzione, perché «in mezzo» — diremmo a centrocamp­o — si gioca la partita del futuro. In mezzo, tra una difesa che non ha più senso fare a prescinder­e e un attacco che non si può improvvisa­re, si forma anche la classe dirigente.

Dicono che usciremo diversi da questa drammatica pandemia. Credo di sì, perché per uscirne dovremo per forza essere diversi da come ci siamo entrati. Ma, almeno, dobbiamo salvaguard­are l’anima dell’economia diffusa di questo Paese, che si basa sulla fiducia, sulla socialità, sull’identità. Spero che rimanga quella capacità italiana di mettere insieme, di connettere le filiere, dal manifattur­iero al commercio, dall’agricoltur­a al turismo e di svilupparl­e in un racconto unico.

Su questi ponti corre il tema della formazione dei giovani, che certo deve valorizzar­e la «cultura del fare» e il «fare cultura» combinando­le con strumenti nuovi, che si trovano nella leva dell’istruzione tecnica. Tecnica non perché il sapere diventi a tutti i costi «utile» o «funzionale», ma perché quello che sappiamo possa pienamente entrare in quello che facciamo e regalare a ogni generazion­e un futuro che non dimentica chi siamo stati. E chi possiamo essere.

Presidente di Confcommer­cio

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