LA FORMAZIONE E IL RUOLO DELLE IMPRESE
Isei noti punti del piano Colao per il rilancio dell’italia, nel documento presentato al governo, vengono ricondotti dalla stessa task force a tre macro aree tra le quali non si può non sottolineare la presenza di «parità di genere e inclusione». Secondo il gruppo presieduto dall’ex numero uno di Vodafone spingere e sostenere il lavoro femminile, eliminare gli stereotipi che vogliono le donne (solo) mamme, combattere la violenza sulle donne, avere leadership femminili in tutti gli ambiti della vita sociale politica ed economica sono elementi che permetteranno al nostro Paese di essere «più forte, resiliente ed equo». E vengono messi sullo stesso piano di «digitalizzazione e innovazione» e della «rivoluzione verde», le altre due macro aree a cui fanno riferimento tutti gli interventi proposti.
È la prima volta che viene affermato con tanta forza il principio che una società — per ritrovare slancio e fiducia — deve essere anche una società inclusiva e terreno di vera parità di genere.
Va detto che non è stato facile arrivare a questa determinazione e più fonti parlano di discussioni accese all’interno del gruppo di lavoro, ma quello che conta oggi è il risultato. Che va ascritto a una attenzione dello stesso Colao già manifestata nei suoi ruoli manageriali; ma soprattutto alle donne della commissione. Donne, anche questo va ricordato, il cui numero è aumentato in corsa quando ci si è accorte (è stata una protesta al femminile) che la task force voluta dal governo — come le altre d’altronde — era quasi monogenere.
Il documento fornisce soluzioni concrete che agiscano su piani diversi in contemporanea perché le disparità che si registrano nel nostro Paese sono troppo di antica data e albergano inconsapevolmente anche nelle menti più aperte. C’è un ultimo punto da sottolineare ed è che le proposte devono avere obiettivi fissati e misurati. E resi trasparenti. Forse la proposta più rivoluzionaria.
C aro direttore, le storie individuali e la storia collettiva in alcuni passaggi si uniscono in maniera quasi inestricabile. Tanto che le «generazioni», quei tratti ricorrenti che accomunano individui diversi vissuti in una certa epoca, non dipendono in realtà dall’anno di nascita. Si formano semmai nell’impatto con i grandi fenomeni collettivi, come è stato in questa stagione — economica e sociale — segnata dal Covid-19. La pandemia in corso è infatti una di quelle cesure storiche in grado di formare la coscienza collettiva, di influenzare una generazione e di accelerare o invertire grandi fenomeni globali in corso, fenomeni come la terziarizzazione dell’economia.
Terziarizzazione non significa semplicemente — seppur con soddisfazione di chi come la Confcommercio le rappresenta — crescita quantitativa delle imprese dei servizi. Significa invece che ogni settore economico viene innervato dai servizi, in particolare quelli avanzati. È un salto di modernità che incide profondamente sulla produttività di un Paese, ma anche sui principi che determinano la stessa idea di qualità della vita. A partire da alcuni beni primari: il lavoro, la salute, la formazione.
Temi diversi tra loro ma che si ritrovano non a caso in uno strumento che ha dimostrato di essere ben di più di un residuo novecentesco: la contrattazione collettiva. Il contratto, infatti, scelta di sussidiarietà nella centralità della dimensione nazionale e suo articolarsi territoriale e aziendale, è il luogo dove il diritto al lavoro e la libertà d’impresa si incontrano e si evolvono, declinandosi con strumenti dedicati proprio alla sanità e alla formazione. Negli anni il sistema della rappresentanza ha così stratificato, lato sanità, un sistema di fondi sanitari e previdenziali e, lato formazione, ha creato enti bilaterali, fondi paritetici interprofessionali per la formazione continua, centri dedicati al management, che proprio in questa drammatica emergenza hanno dispiegato risorse economiche e umane.
Anche attraverso questi sistemi di welfare — commercio, turismo, servizi, trasporti, professioni — si può contribuire al Paese, superando i limiti della dimensione imprenditoriale e valorizzando il suo essere da sempre volto delle città e anima dei luoghi, punto di incontro tra identità e innovazione, terreno di incontro di convivenza sociale e crescita individuale. Questa classe imprenditoriale è parte non prescindibile della distintività del nostro Paese e, pur non sempre ascoltata e capita, nel tempo ha però anche rappresentato il bacino spontaneo di una classe dirigente selezionata dal «basso». Pervasiva, rasoterra, a volte inquieta, è una «popolazione» che oggi apparentemente sembra avere come istanza il primum vivere rispetto alla crisi più profonda che il mondo abbia vissuto dagli anni 30. Eppure, è fuori dubbio che oggi la sopravvivenza passi attraverso l’evoluzione di questo ceto imprenditoriale. E l’avverarsi di questo nuovo miracolo italiano passa da una strada: la maturazione del terziario, che lega impresa diffusa e, ancora una volta, formazione.
Ferruccio de Bortoli — al quale si deve questa riflessione a più mani — sa bene che due delle grandi università milanesi nascono dal supplemento di responsabilità del sistema delle imprese. Da una parte, la generosità della famiglia Bocconi — commercianti di successo — e di Leopoldo Sabbatini, segretario della Camera di commercio di Milano e di Unioncamere. Dall’altra, l’impulso della Società di incoraggiamento d’arti e mestieri, ancora con la partecipazione della Camera di commercio, che diede vita al Politecnico.
Questa connessione — anzi contaminazione — decisa ieri e rinnovata oggi, tra imprese, istituzioni e associazioni di rappresentanza del sistema economico, in tema di formazione, ha contribuito al passaggio dall’idea di «insegnamento» a quella di «apprendimento». Nell’apprendimento, a chi impara è richiesto un ruolo attivo. Formarsi diventa così una componente permanente dell’attività lavorativa e dello sviluppo individuale, in grado di costituire un fattore di anticipazione del cambiamento. Una condizione fondamentale soprattutto nei periodi di crisi, in funzione anticiclica, capace di salvaguardare il capitale umano — a partire dal middle management — offrendo al tempo stesso competitività delle imprese e «nuovi lavori» per le persone.
Middle management, corpi intermedi, ceto medio imprenditoriale in evoluzione, perché «in mezzo» — diremmo a centrocampo — si gioca la partita del futuro. In mezzo, tra una difesa che non ha più senso fare a prescindere e un attacco che non si può improvvisare, si forma anche la classe dirigente.
Dicono che usciremo diversi da questa drammatica pandemia. Credo di sì, perché per uscirne dovremo per forza essere diversi da come ci siamo entrati. Ma, almeno, dobbiamo salvaguardare l’anima dell’economia diffusa di questo Paese, che si basa sulla fiducia, sulla socialità, sull’identità. Spero che rimanga quella capacità italiana di mettere insieme, di connettere le filiere, dal manifatturiero al commercio, dall’agricoltura al turismo e di svilupparle in un racconto unico.
Su questi ponti corre il tema della formazione dei giovani, che certo deve valorizzare la «cultura del fare» e il «fare cultura» combinandole con strumenti nuovi, che si trovano nella leva dell’istruzione tecnica. Tecnica non perché il sapere diventi a tutti i costi «utile» o «funzionale», ma perché quello che sappiamo possa pienamente entrare in quello che facciamo e regalare a ogni generazione un futuro che non dimentica chi siamo stati. E chi possiamo essere.
Presidente di Confcommercio