Io non ballo da solo
Ho appena letto le norme, sacrosante, sulla riapertura estiva delle discoteche e sono felice di avere avuto vent’anni qualche estate fa. All’ingresso bisognerà sorbirsi una coda come alle Poste, con i termometri che toglieranno il lavoro ai buttafuori. Una volta dentro, si potrà ballare all’aperto, beninteso a due metri l’uno dall’altro. Oltre ai lenti, già abrogati molto prima del governo Conte, saranno vietati i dialoghi tra i corpi che costituiscono l’essenza della danza. Sarà permesso rimanere seduti. Ma senza parlare con nessuno, a meno che si abbia il diaframma di un tenore, perché per farsi sentire nel frastuono è indispensabile avvicinarsi all’orecchio del vicino, attività oltremodo pericolosa e illegale. Quindi uno dovrebbe farsi due ore di coda, misurarsi la febbre e spruzzarsi di amuchina per mettersi a bere una birra in solitudine sopra un divano, ascoltando musica ad alto volume neanche scelta da lui.
Se avessi vent’anni, in Covid-iscoteca ci andrei lo stesso, non fosse che per salvare da morte certa l’industria dello svago. Approssimandomi però ad averne il triplo, mi concedo il lusso di fare il filosofo. E, dopo una breve riflessione tra me e me (ancora consentita, purché il secondo «me» si trovi ad almeno un metro di distanza), mi dico che le uscite di gruppo sono divertenti solo se ci si può toccare. Un ballo spalla a spalla in discoteca, un abbraccio allo stadio dopo un gol. Ma se distanziamento asociale dev’essere, allora preferisco farlo a casa mia.